Il problema del rapporto tra Chiesa e Stato può sembrare risolvibile in teoria, ma rimane eternamente aperto nella vita pratica.
In teoria si può considerare definitiva l’affermazione di Cristo: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”; nella realtà essa ci definisce solo il punto di partenza, cioè la separazione tra Chiesa e Stato, ma non ci dice nulla del punto di arrivo, cioè sul comportamento pratico per realizzate tale principio. Essa infatti è un principio religioso, cioè valido per ogni tempo, mentre il campo politico è quello in cui i singoli tempi mettono in pratica concretamente la loro cultura per realizzare i loro fini.
Se ripensiamo un attimo alla storia, vediamo che la causa di tale problema è data dal fatto che i due elementi antagonisti non riconoscono nessuna realtà terrena al di sopra di sé: la Chiesa religiosamente si appella a Dio, lo Stato a principi e valori che la sua stessa cultura ha creato, ma ha definito ugualmente, in modo laicamente religioso, certi e inviolabili.
Oggi sembra tornare di attualità un elemento fortemente dibattuto negli anni caldi della Questione Romana: allora da parte cattolica chi si opponeva al principio cavourriano di “libera Chiesa in libero Stato” accusava di doppiezza i liberali, affermando che essi in realtà sostenevano il principio: “libera Chiesa in Stato sovrano”. Oggi infatti, a causa del coronavirus, lo Stato precipitosamente si è ritenuto in diritto di legiferare anche nell’ambito della vita della Chiesa. Con ciò ritorna evidente da un lato la difficoltà della separazione, in pratica, tra i due poteri, dall’altro l’importanza ed il significato dei Concordati, che in epoca moderna sono visti come il mezzo migliore per realizzare la pace religiosa. D’altra parte, se si studia la legislazione di questi ultimi decenni, si può rilevare come essa conceda ai rappresentati dello Stato – ad esempio ad un semplice Sindaco – poteri tali da determinare se non una vera persecuzione religiosa, almeno un’ingerenza ostile e abusiva nella vita dei credenti.
Nella situazione attuale la Chiesa ha seguito con piena collaborazione le delibere statali, tanto da far sorgere in alcuni l’impressione di una subordinazione troppo supina, e quindi colpevole, all’improvvisa ingerenza dello Stato. Conviene allora fare alcune precisazioni, sperando che servano a passare dalle difficoltà attuali ad una ricomposizione a livelli più evoluti del problema dei rapporti tra Chiesa e Stato,
In primo luogo, vista la facilità con cui la situazione concreta può spingere uno dei due elementi a prevaricare sull’altro, è importante che cattolici e laici recuperino la coscienza di cosa vuol dire separazione tra Chiesa e Stato, che si ribadisca la necessità che la Chiesa sia sentita come struttura autonoma e sovrana e quindi che si ripensi ai concordati non come una soluzione di comodo o una concessione dello Stato alla Chiesa, ma come uno strumento che, regolando elementi molto delicati, va rispettato con scrupolo da entrambe le parti.
In secondo luogo bisogna considerare che il riconoscimento dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato non si radica, anche in un pensiero laico, solo sul diritto fondamentale di tutti gli uomini alla libertà religiosa. Soprattutto se consideriamo la società italiana, vediamo facilmente che il rapporto della comunità civile con la realtà cattolica trae la sua ragione anche dal dovere dello Stato di realizzare il bene comune. Non si tratta solo di un fatto culturale (senza il cattolicesimo non comprenderemmo né Dante né Michelangelo), né del fatto che senza il volontariato cattolico il nostro debole Stato andrebbe in crisi: per tanti secoli principi e sensibilità religiosa hanno alimentato la vita e il sentire degli uomini, che il cattolicesimo è diventato parte e radice del nostro essere, tagliando la quale l’uomo rimarrebbe nudo. Esso rimane dunque – per così dire – come il linguaggio spirituale che cementa gli uomini in una comunità e in una civiltà e che permette allo Stato di dialogare e di realizzarsi come comunità di cittadini.