È un problema non di certo nuovo, ma che si è ingigantito sin dall’inizio del lockdown, e ha portato i detenuti, in preda al panico, a gravose rivolte all’interno degli istituti penitenziari.
Il rischio della diffusione del virus è maggiore poiché queste strutture sono chiuse, e si presenta un sovraffollamento di ben il 120% in più (dati del Ministero della Giustizia al 29 febbraio 2020) della capienza normale. Si conviene quindi che il distanziamento sociale è impossibile da realizzare, dal momento che le condizioni igieniche sono spesso precarie, e anche il solo lavarsi le mani risulta difficile. Si consideri inoltre che lo stato di salute dei detenuti è già cagionevole, dal momento che il 67% di loro risulta avere almeno una patologia pregressa, che li porta ad essere considerati soggetti a rischio.
Il Governo ha previsto che i colloqui con i detenuti avvengano ‘da remoto’, e che la concessione dei permessi-premio e della semilibertà possa essere sospesa fino al 31 maggio 2020. Ci si è resi conto però, che la lotta all’epidemia da coronavirus non poteva essere condotta semplicemente adottando qualche precauzione al suo interno. Per questo, nell’ambito del c.d. decreto ‘cura Italia’ (d.l. 17 marzo 2020 n, 18) si è cercato di evitare l’ingresso di nuovi detenuti provenienti dall’esterno, prevedendo il ricorso a misure alternative (detenzione domiciliare e semilibertà), con presupposti diversi e procedure semplificate rispetto alla disciplina ordinaria, allo scopo di ridurre in tempi brevi il numero dei detenuti.
Lo strumento principale è stato individuato nella detenzione domiciliare, più precisamente nella particolare forma di detenzione domiciliare disciplinata dalla L. 26 novembre 2010, n. 199, un istituto con il quale per effetto di questa misura sono usciti negli anni quasi 27000 detenuti (dati del Ministero della Giustizia al 31 dicembre 2019).
Si consente così l’esecuzione della pena detentiva presso il domicilio (da intendersi come abitazione o altro luogo pubblico o privato di cura, assistenza e accoglienza), a condizione che la pena non sia superiore a 18 mesi, anche quando si tratti del residuo di una maggior pena.
Potremmo chiederci come mai si è scelto di conservare il limite di diciotto mesi previsto nella disciplina generale del 2010, in un momento in cui la misura va adattata ad una situazione di assoluta emergenza, nella quale la salute collettiva corre gravi pericoli. Scelta poco comprensibile, considerato che si tratta di introdurre una disciplina speciale a carattere temporaneo: è infatti previsto nel decreto legge che la nuova disciplina possa trovare applicazione fino al 30 giugno 2020.
Inoltre, secondo il decreto “cura Italia”, è condizione necessaria, per il controllo della misura cautelare, l’uso dei c.d. braccialetti elettronici, i quali sono però insufficienti rispetto al numero realmente necessario. Insomma si notano timidi rimedi, se guardiamo all’operato di altri paesi.