Mi inserisco nel dibattito, assai vivace, che si è riacceso intorno al disegno di legge “Zan” (in realtà di iniziativa di circa 170 deputati) riproponendo una netta divisione di opinioni sul tema della omotransfobia e sulle relative previsioni punitive che si vorrebbero introdurre nel nostro ordinamento giuridico, all’interno del codice penale. Ebbene, la lettura del testo delle “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, impone non poche riflessioni. Mi limito, peraltro, ad analizzare in chiave critica questa proposta di legge nella sola prospettiva di quello che dovrebbe essere il percorso di ideazione e di costruzione della norma penale nel doveroso rispetto dei principi fondamentali del nostro sistema giuridico. In tal senso, a prescindere da ogni radicalizzazione di opinioni che necessariamente segna questa discussione sul piano sociale, etico e culturale, ritengo di dover esprimere un giudizio tecnico negativo. Sotto il profilo sistematico, la scelta pare quella di inserire nel sistema nuove previsioni di reato e di circostanze aggravanti quali integrazioni di norme esistenti, vale a dire l’art. 604-bis e l’art. 604-ter c.p., che puniscono la “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etica e religiosa (norme introdotte con il D. Lvo n. 21/2018) e che, pertanto, dovrebbero arrivare a punire le medesime condotte (non certo tassativamente indicate nelle stesse norme, per così dire, di origine) finalizzate ad istigare o a commettere atti discriminatori fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità; ciò rivela un motore ideologico particolarmente spinto, foriero dunque, anche all’interno del processo e delle aule di giustizia, di questioni e problematiche interpretative di tale natura. Il rischio assai evidente, per intenderci, è che la estrema genericità e la perdita di “tipicità” della norma, vale a dire della individuazione precisa del comportamento sanzionato e degli indici rivelatori delle motivazioni che hanno determinato quel singolo comportamento, possa offrire il destro a pericolosi spazi e dilatazioni interpretative di natura ideologica. Non va dimenticato, infatti, che il giudice è pur sempre un “uomo”, inteso nel senso più ampio della parola, necessariamente guidato e condizionato dalle proprie convinzioni e ideologie, per cui lo spazio decisionale offertogli dalla norma rappresenta una seria criticità che non può essere ignorata dal legislatore in quanto urta contro il principio di tassatività, intesa come precisione della norma penale, che discende dal più generale principio di legalità (art. 25 Cost.). Lascia poi assai perplessi l’art. 4 del disegno di legge in questione che propone un’affermazione di “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”, ritenendo di dover esplicitare la sacrosanta (dico io, ma molto prima di me lo dice la Costituzione all’art. 21!) “salvezza” della libera espressione di convincimenti od opinioni nonché delle condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, ponendo, tuttavia, un limite ad esse laddove tali manifestazioni dei propri diritti costituzionali siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Ebbene, sempre e solo su un piano tecnico, si tratta di una proposta che suona come il tentativo di piantare una bandiera ideologica anche all’interno di in un sistema, quello penale, che non può ammettere radicali soggettivizzazioni del pensiero e che del resto ha già in sé i più efficaci strumenti di contrasto e di lotta contro ogni forma di aggressione e violenza ai danni dell’uomo, inteso unicamente ed in modo omnicomprensivo quale essere umano, chiunque esso sia e senza alcuna differenza.
Avv. Giovanni Tarquini