Introduzione
Nell’affrontare un percorso simile, fatto di alcuni incontri, con l’obiettivo di una formazione, seppur piccola per numero di ore, e anche di cura pastorale, dato che questo è lo scopo della ia presenza qui tra di voi, del compito affidatomi dal vescovo, non potevo ovviamente non tenere conto dello specifico vostro, di operatori del diritto.
In modo particolare, mi è sembrato necessario, a motivo dei tempi in cui ci troviamo, delle sfide che in ambito giuridico, sociale, pubblico, si presentano ai giuristi, lavorare sulla coscienza, sulla formazione e cura della stessa.
Ciò a motivo anche poi dell’obiettivo che si prefigge questa serie di incontri, intitolata “ Avversari, non nemici”. Molto spesso infatti la conflittualità, lo scontro, non solo tra avvocati che si trovano su fronti contrapposti nell’ambito di una causa, che si trovano a difendere parti contrapposte, ma più in generale purtroppo nell’ambito di molteplici rapporti che hanno a che fare col diritto, sia in ambito privato – negozi giuridici- sia in ambito pubblico – avvocati contro giudici, pm contro avvocati difensori, persone che rivestono cariche pubbliche-.
Ecco allora che per trovare un terreno comune, diminuire la conflittualità, instaurare dei rapporti corretti che non prevedano una contrapposizione, ho ritenuto necessario lavorare appunto sulla dimensione singolare, ma comune a tutti, della coscienza.
Per fare ciò, è necessario a mio avviso partire dalla base della coscienza stessa, ossia quella legge naturale, universale, morale, comune a tutti.
Passeremo poi nel secondo incontro in rassegna delle obiezioni, storico/etiche/scientifiche alla stessa, il relativismo giuridico e la crisi del giuspositivismo, e infine nel terzo incontro ci soffermeremo in maniera sistematica propino sulla coscienza e le sue dinamiche.
La norma dell’agire: terreno d’incontro tra colleghi e avversari.
Venerdì 18 novembre 2022
- Inquadramento introduttivo sulla legge morale.
- Caratteri della legge universale.
- Alcuni contributi storici al formularsi dell’idea di “legge universale”.
- Unicità della legge universale e sue declinazioni
- La legge universale è “una”.
- Analogia col principio di non contraddizione- un parallelo illuminante.
- Elevare ogni atto a scelta.
- I bisogni.
- Autoconservazione,
- Affettività.
- Socialità.
- Tendenza a voler conoscere la verità.
- I bisogni come condizioni della vita morale.
- Complessità dei bisogni.
- Il conflitto tra i beni.
- Il contributo di A. Rosmini.
- Qualche esempio.
La legge morale come via al fine
Quando l’uomo sa di essere in cammino verso una meta, e sa che alcuni passi lo possono condurre lì, mentre altri lo possono allontanare, nasce per lui il problema di individuare una strada che lo porti alla meta: una strada che sia riconoscibile anche nella assenza di guide umane o nel complicarsi delle circostanze e degli stati d’animo. Ora, la tradizione patristica e scolastica, per indicare la via al fine proprio dell’uomo, parla di legge dell’atto umano – legge universale ( legge morale).
1) Caratteri della legge morale
a) Una legge morale deve essere tale da congiungere il passo con la meta. Non a caso, “legge” (lex, legis in latino) viene da ligare, che, a sua volta, ha a che fare con il greco lego, verbo che indica in primo luogo l’atto del legare. S.Tommaso definisce la legge in generale – comprendendo nella definizione anche la legge morale – come “ordinatio rationis in bonum commune” (cfr. Summa th., I-IIae, q. 90, a. 4). Ordinatio in bonum, vuol dire che che la legge ci lega (ci ob-liga) al bene. A quale bene? Al bonum commune, cioè al fine ultimo di diritto che è comune a tutti gli uomini: la felicità o beatitudine (cfr. Summa th., I-IIae, q. 90, a. 2). L’espressione ordinatio rationis indica inoltre che la legge ci obbliga, non meccanicamente, bensì attraverso la ragione (cfr. Summa th., I-IIae, q. 90, a. 1); ovvero, ci lega in quanto è conosciuta come tale, cioè riconosciuta come legge.
Questo significa:
- che essa ci ob-liga liberamente, perché siamo liberi di scegliere, rispetto a ciò che conosciamo (al contrario della pietra, che non è libera di scegliere rispetto alla legge di gravità);
- significa inoltre che se essa fosse ignota o non conoscibile, non ci obbligherebbe.
La legge, dunque, se vuole valere per l’uomo in quanto uomo, deve essere “promulgata” (cfr. Summa th., I-IIae, q. 90, a. 4) – cioè, leggibile da qualche parte e in qualche modo. Se però una legge “positiva” (cioè posita, nel senso di “scritta”) viene promulgata attraverso un documento, da una autorità umana appositamente istituita – e ha vigore di legge dal momento della sua pubblicazione -; la legge morale che stiamo cercando di individuare:
- non potrà essere promulgata da un’autorità umana: infatti, solo se l’uomo fosse il fondamento di se stesso, potrebbe stabilire – ponendo se stesso – la legge del proprio agire adeguato. Non stando così le cose, l’autorità umana potrà al più confermare la legge morale (attraverso, ad esempio, leggi positive che siano ad essa conformi), ma non potrà certo farla valere per decreto.
- Neppure potrà, la legge morale di cui siamo in cerca, coincidere formalmente con una qualche rivelazione, dogma imposto dall’esterno. Infatti, per essere accolta dall’uomo, questa legge dovrà pure essere giudicata corrispondente con la dinamica naturale che l’uomo deve già essere in grado di riconoscere in se stesso (magari proprio in occasione dello stimolo che gli viene dalla Rivelazione). Dunque, la legge morale, di cui siamo in cerca, non potrà avere altro luogo di promulgazione che la natura stessa dell’uomo (lex indita; cfr. Summa th., I-IIae, q. 106, a. 1), e lì, nella natura umana, essa dovrà venire indagata.
Alcune precisazioni
Parlare di legge morale naturale significa indicare come criterio dell’azione il rispetto e la promozione di ciò che è inscritto nella natura umana, e, in generale, di ciò che può essere compreso come naturale nel mondo in cui l’uomo è inserito. Già questa semplice indicazione contiene, in fondo, tutti gli elementi della legge morale. Nel tentativo, però, di precisare tale indicazione, abbiamo individuato il criterio svolto e illustrato nei paragrafi precedenti; criterio secondo il quale non si può rispettare la natura (la forma) dell’uomo, senza assecondarne la dinamica fondamentale. Affrontare i bisogni umani, ma non secondo la loro autentica portata, non sarebbe un rispetto parziale dell’uomo, bensì un suo radicale tradimento.
Come già è emerso nei paragrafi precedenti, l’apertura esplicita al fine ultimo, si traduce sempre in una apertura agli stessi fini infravalenti, cioè alle sfere di vita e di relazione che si collocano tra la sfera direttamente interessata dall’azione e il fine ultimo.
Così, il lavoro si apre alla responsabilità – attuale o potenziale – verso la famiglia; la vita familiare è destinata ad essere luogo di riferimento per un contesto umano più ampio; la convivenza amicale e quella sociale sono autentiche quando hanno di mira l’affermazione della verità.
2) Alcuni contributi storici al formularsi dell’idea di “legge naturale”
a) Tipica della mentalità greca è la tendenza a “riferire la legge all’essere, cioè all’unità oggettiva del mondo in quanto cosmo, un ordine di cose ontologico permanente, che è nello stesso tempo l’ordine ideale di tutti i valori e il fondamento della vita umana e della libertà” (cfr. W. Jaeger, Eloge de la loi, 1949). Per questo, già Eraclito sosteneva che le leggi umane “si nutrono” di una legge più profonda, che è il “logos”: fondamento di tutte le realtà naturali (cfr. D.-K., B 114).
b) I primi a parlare di “legge naturale” sono però i sofisti naturalisti. In particolare, Antifonte (cfr. D.-K., B 44) sostiene che le “norme di natura” sono “essenziali”, mentre quelle giuridiche sono “accessorie”. Egli sostiene che, ovunque non vi sia pericolo di incorrere in sanzioni, sia giusto che l’uomo segua le prime, che sono quasi sempre in contrasto con le seconde. Antifonte ha però una concezione equivoca delle norme di natura: sembra infatti intenderle come espressioni della semplice spontaneità fisica dell’uomo, considerata al di fuori di ogni regola.
c) Aristotele indica occasionalmente una “legge secondo natura” (nomos katà physin) o “legge non scritta” (nomos àgraphos) (cfr. Retorica, I, 13).
d) Sono però gli Stoici a insistere sul tema della legge naturale. Se per loro il logos è la natura profonda che anima tutte le cose, la formula di Zenone “omologouménos zèn” (vivere secondo il logos), equivale a quella successiva di Cleante “omologouménos tè physei zèn” (vivere secondo la natura). Ancora in spirito stoico, Cicerone definirà la legge naturale come “la ragione (ratio) somma insita in natura, che ordina le cose che sono da fare e proibisce le contrarie” (cfr. De legibus, I, 6, 18), in confronto alla quale le leggi degli stati sono semplici convenzioni, valide solo nella misura in cui ne sono espressione.
e) Non potendo tener conto, in questa sede, dell’incalcolabile contributo dato da Antico e Nuovo Testamento alla formulazione del concetto in questione, ci limitiamo a indicare l’eredità che ne hanno tratto alcuni Padri della Chiesa. Tertulliano usa diversi termini per indicare la legge naturale (istanza superiore alle leggi dello stato e alle consuetudini dei popoli): il più abituale e caratteristico è “testimonium animae” (cfr. De testimonio animae). Lattanzio preferisce invece l’espressione “ratio hominis”, con la quale indica la capacità di accedere alla “vera justitia”, distinta dal “civile jus” (diritto civile) (cfr. Divinae institutiones, VI, 9). In Lattanzio è costante l’idea per cui disobbedire a questa legge interiore, significa tradire la propria umanità (in particolare, la propria differenza specifica), distruggendo se stessi.
f) Agostino introduce il concetto di lex aeterna, al quale Tommaso si rifarà per contestualizzare il suo discorso intorno alla legge naturale. La “legge eterna”, o “summa ratio”, è riconoscibile da ogni essere intelligente (cfr. S. Agostino, De libero arbitrio, l. I, cap. 6), in quanto è lo stesso dinamismo ordinato del mondo (la natura del mondo, pensata e voluta dal Creatore). Parlare di una legge eterna significa, in fondo, parlare del disegno creatore e del ruolo di ogni creatura in tale disegno. Ora, ciò che una prassi perversa riesce a deformare, resta comunque tutelato nella mente creatrice di Dio: questo sembra il senso della indicazione agostiniana.
g) Tommaso riprende il discorso sulla legge eterna, ma precisa che alla mente umana essa è accessibile solo indirettamente: non può cioè essere letta direttamente nella mente divina, bensì solo ricostruita parzialmente sulla base delle notizie che sono reperibili nella natura stessa (cfr. Summa th., I-IIae, q. 93, a. 2): “infatti, ogni conoscenza della verità è una qualche irradiazione e partecipazione della legge eterna”. In fondo, Tommaso – che è più schiettamente filosofo di Agostino – intende partire da ciò che è primo “per noi”, per arrivare a ciò che è primo “in sè”: insomma, egli stabilisce che la creazione è un disegno ordinato, che passa attraverso delle nature finalisticamennte orientate, proprio sulla base della osservazione del comportamento regolare di tali nature (puramente fisiche o umane che siano). Ora, se Tommaso definisce la “legge naturale” come quella “partecipazione, nell’uomo, della legge eterna, seguendo la quale egli distingue il bene dal male” (cfr. Summa th., I-IIae, q. 91, a. 2), lo fa tenendo presente che ciò che ci è accessibile per primo è essattamente la legge naturale. È importante, da ultimo, precisare il senso di questa “partecipazione”: non si tratta, evidentemente, di una partecipazione passiva. Certo, anche l’uomo, come le altre realtà dell’universo, è per molti aspetti agìto, spinto verso i fini che ha in comune con gli altri esseri viventi (è sottoposto, cioè, alle stesse leggi fisiche bio- chimiche e biologiche – che pure sono parte della legge eterna); egli, però, vive (come essere razionale) anche una finalizzazione che sappiamo essergli esclusiva, e rispetto alla quale è consapevole e libero, cioè è chiamato ad essere “provvidenza a se stesso e agli altri” (cfr. Summa th., I-IIae, q. 91, a. 2). In nome di questa vocazione specifica, l’uomo provvederà dunque a elaborare anche i fini infravalenti della sua natura complessa, per fare in modo che anch’essi siano ricondotti, per quanto possibile, all’unico scopo dell’esistenza umana.
Unicità della legge e sue declinazioni
1) La legge morale è “una”
Dalla ricognizione teorica e storica offerta emerge che la natura umana è l’unico depositario possibile di una legge propria dell’uomo in quanto uomo, cioè di una legge della sua vita morale. Ma – ci chiediamo -, questa possibilità è anche una effettualità? Non è difficile rispondere di sì, se si considera che la natura umana ci è già nota come qualcosa in via di compimento: di un compimento che deve esserle appropriato (e del quale abbiamo già indicato alcuni tratti essenziali). Si potrà allora correttamente affermare che il perseguimento del bene proprio dell’uomo è già tutto quanto la legge morale naturale ha da indicarci. In tal senso Tommaso sottolinea che la legge si condensa in un unico precetto (praeceptum) – “bonum prosequendum, et malum vitandum” (il bene è da perseguire, il male è da evitare) -, al quale gli altri eventuali precetti andrebbero “ricondotti” (cfr. Summa th., I-IIae, q. 94, a. 2).
Questa indicazione svolge, in relazione alla prassi, un ruolo analogo a quello svolto dal “principio di non contraddizione”
Analogia col principio di non contraddizione- un parallelo illuminante.
Il principio “bonum prosequendum, malum vitandum” in relazione all’agire pratico e alle scelte funziona esattamente come il principio di non contraddizione in relazione alla logica [Si può essere anche più rigorosi, dicendo che il principio “bonum prosequendum, malum vitandum” è lo stesso pdnc in quanto riferito alle scelte, mentre il pdnc può essere considerato come lo stesso principio “bonum prosequendum, malum vitandum” riferito a quel particolare bene che è il dire in conformità al pensiero, cioè al manifestarsi dell’essere]. In fondo, l’unica indicazione possibile è quella di non contraddirsi nella scelta, e di evitare dunque
ciò che è incompatibile con la volizione del bene che anima il nostro agire. Per non contraddirsi praticamente, bisogna, non solo volere il bene come tale (il che, di fatto, è inevitabile), ma anche vivere ogni scelta in modo coerente con questa volizione, e cioè come apertura al bene come tale.
NB: La filosofia patristica e scolastica usa il termine “sindéresi” – introdotto da Origene e da S. Girolamo (cfr. Comm. in Ezech., I, cap. 1) -, per indicare l’intuizione del principio “bonum prosequendum (o faciendum), malum vitandum”. L’intuizione del principio in questione è – per Tommaso – qualcosa di originario e di irriducibile ad evidenze precedenti: essa equivale, insomma, alla radice stessa della esperienza morale dell’uomo .
2) Elevare ogni atto a gesto
Proseguendo nel delineare la analogia in questione, si può riconoscere che, come il pdnc è forma di ogni dizione pensata, così il “bonum faciendum” è forma di ogni azione propriamente voluta (cioè, di ogni “gesto”). Naturalmente, questo varrà per le diverse dimensioni (o declinazioni) che possono assumere, rispettivamente, la riflessione teorica e l’azione – e senza perdere mai di vista che queste ultime sono, in fondo, due comode astrazioni, visto che non c’è momento teorico che non sia anche prassi, e viceversa. Conservando comunque l’utile astrazione, possiamo ricordare che il linguaggio è chiamato al rispetto del pdnc, sia quando è linguaggio matematico, o linguaggio fisico, o filosofico, o storico, e così via. Analogamente, i diversi livelli di azione (cioè di scelta) sono tutti chiamati alla coerenza con il “bonum faciendum”, cioè alla apertura al bene come tale.
a) I bisogni
I diversi livelli dell’agire corrispondono poi ai tentativi di dar risposta ai corrispondenti livelli di bisogno dell’uomo. Il termine “bisogno” (dal latino arcaico “somnium” e\o dal gotico “sunia”) indica la sollecitudine verso ciò che manca. Ora, l’uomo è in cammino verso il suo fine con tutto se stesso, quindi è in cammino secondo tutti i suoi aspetti di bisogno. Per questo, la prospettiva tomista che stiamo interpretando e dilatando, non vede il realizzarsi della legge morale in una assoluta autonomìa rispetto ai bisogni (come è nella prospettiva di Kant (cfr. Critica della ragion pratica, I, l. I, cap. 2); piuttosto, vede il realizzarsi della legge morale in una considerazione e in un soddisfacimento propriamente umani del bisogno: infatti, se è bene “per l’uomo” tutto ciò che soddisfa i suoi bisogni, è bene propriamente “umano” ciò che contribuisce a realizzare il desiderio che segretamente li attraversa. Ad esempio, se l’uomo in quanto essere vivente ha dei bisogni, ciò che li soddisfa è buono per l’uomo in quanto essere vivente; la legge morale è l’appello a rendere il bene per l’uomo in quanto essere vivente, bene per l’uomo in quanto uomo, cioè passo verso la meta ultima. E questo vale per ogni genere di bisogno.
Così, la legge morale può condensarsi in una formula di questo tipo: “che i bisogni siano vissuti secondo la profondità del desiderio”, in modo che la risposta ad essi si elevi a “gesto”. In questa indicazione, niente, di ciò che appartiene all’uomo, viene dimenticato, ma tutto viene invece orientato. In un suo celebre testo (cfr. Summa th., I-IIae, q. 94, a. 2), Tommaso distingue quattro livelli di “inclinatio” (tensione alla completezza): quattro generi di bisogni oggettivi, cioè propri dell’uomo in quanto tale.
- Un livello che l’uomo ha in comune con tutti gli esseri viventi: la tendenza all’autoconservazione, e la ricerca di ciò che ad essa è funzionale.
- Un livello che l’uomo ha in comune con gli animali: la tendenza del maschio e della femmina ad unirsi affettivamente e sessualmente, e a procreare e mantenere i figli.
- Un livello che Tommaso ritiene esclusivo dell’uomo (mentre è comune anche a molte specie animali): la tendenza a vivere in società e a risolvere in comune i problemi.
- Un livello che Tommaso accenna di sfuggita, ma che è con ogni evidenza quello emergente: la tendenza a voler conoscere la verità sul proprio destino.
Ciò che accomuna queste “inclinationes” è la loro inestirpabilità: si possono deviare, alterare, ma non eliminare.
Ora, i vari aspetti di questa struttura elementare dell’esperienza umana non sono certo, di per sé, dei precetti morali: sono piuttosto le condizioni entro le quali si articola la vita morale. La moralità non sta nell’assecondare in qualunque modo le tendenze in questione, bensì – come si diceva – nel viverle come apertura al destino, e non come chiusura sul proprio (in tal caso, illusorio) compimento.
b) I bisogni come condizioni della vita morale
Sarebbe errato svolgere il discorso sulla legge morale ignorando i bisogni dell’uomo concreto. Senonché, pretendere (illusoriamente) di ignorare quei bisogni che costituiscono la condizione in cui l’uomo si radica, non può essere coerente con il fine ultimo. È infatti quest’uomo, descritto anche da questi bisogni – e non piuttosto un altro uomo, tutto da inventare -, quello che è in cammino verso il destino, e che è chiamato a riconoscerlo. I bisogni sono anch’essi condizioni del cammino, come lo è il desiderio della meta. Non valorizzarli come risorse in vista della meta, non orientarli e non illuminarli in tal senso, significa pretendere di camminare senza gambe o di arrampicarsi senza braccia. Per usare una allegoria ovvia: chi non mangia il cibo adatto, o non si riposa al momento opportuno, o non sceglie la compagnia adeguata, o non studia sulla carta il percorso, non può pretendere di arrivare in vetta.
c) Complessità dei bisogni
Ciascuna “inclinatio” si articola a sua volta in diversi aspetti.
– Nella sfera dei bisogni vitali, la tendenza a mantenersi in vita, si traduce nel tentativo di porre e continuamente migliorare le condizioni della vita. Gli atti legati alla cura di sé – dal nutrirsi, al lavarsi, al dormire, al curarsi nella malattia, al fare sport – appartengono a questo livello. Ma anche la complessa realtà del lavoro, che va a trasformare il mondo in funzione del bisogno vitale, appartiene già a questo livello – pur ricollegandosi anche ai livelli successivi, date le sue evidenti implicazioni con la realtà della famiglia, con quella della società, e anche con la conoscenza della verità.
– Alla sfera dei bisogni affettivo-sessuali appartengono la spontanea tendenza unitiva tra uomo e donna, e quella procreativa, che si evolve naturalmente nella formazione di un nucleo familiare in cui sia possibile accudire i figli.
– Alla sfera della socialità appartiene la tendenza dell’uomo a vivere in nuclei più ampi di quello familiare, condividendo i problemi e superando le difficoltà (materiali e morali) all’interno di comunità, la cui ampiezza e complessità è giunta ormai – nel nostro secolo – a dimensioni planetarie.
– Alla sfera della ricerca della verità appartiene ogni livello di indagine, da quello più empirico a quello dallo statuto più raffinato; ed ogni specie disciplinare di indagine, fino a comprendere quella filosofica e quella teologica. A questa sfera riferiamo anche l’estremo tentativo dell’uomo che cerca: la preghiera.
In conclusione, ognuna delle realtà che abbiamo sommariamente delineato indica un livello dell’agire dell’uomo, chiamato a diventare gesto.
3) Alcuni esempi
Proviamo a indicare molto sommariamente qualche esempio di come una azione dello stesso tipo possa essere vissuta in forma “aperta” o in forma “chiusa”: secondo la legge morale oppure no.
– (1a) La stessa azione quotidiana del mangiare può essere vissuta secondo forme opposte. Pensiamo a don Giovanni, che nella scena decisiva del “libretto” di Lorenzo Da Ponte – musicato da Mozart – si ingozza in solitudine di cibi e vini raffinati, mentre un’orchestra suona solo per lui e il servo Leporello corre avanti e indietro solo per lui. Certo, don Giovanni dice “presto entrate amici cari”, ma questi amici non si vedono, non parlano (al più possono funzionare come sfondo). E che don Giovanni mangi in realtà da solo, lo si capisce da come respinge i due autentici commensali che gli si presentano: la donna che egli ha ingannato con una promessa di matrimonio e il fantasma del “Commendatore” (sua vittima in duello). Tentando di respingere quest’ultimo, egli cerca di allontanare dalla sua tavola il suo stesso destino – senza peraltro riuscirci.
Opposta alla precedente immagine è quella di un sedersi a tavola che sia preceduto da una preparazione e da un invito, che mettano al centro i commensali (e non direttamente il cibo): in tal caso, a tavola si parlerà della vita, e se anche non si parlerà esplicitamente del destino, lo si pregusterà in qualche modo. Comunque, l’apertura al fine ultimo è – in questo caso, e in generale – anche apertura ai fini infravalenti che lo anticipano più da vicino: dal rapporto affettivo o amicale, all’interesse per la comunità, alla tensione verso la verità ultima (esplicitamente riconosciuta, quando, ad esempio, prima di mangiare si prega). Testimonianza eloquente di come l’esperienza del cibo possa essere apertura alle cose ultime è, del resto, il fatto che – stando alla tradizione cristiana – Gesù nel Vangelo indichi il Paradiso come un “sedere a tavola con Abramo”, e fissi il luogo della sua permanenza storica tra gli uomini nel “banchetto eucaristico”.
(1b) L’esperienza del lavoro può essere vissuta come una “alienazione” puramente funzionale al guadagno, e a ciò che esso garantisce; o anche può essere vissuta in funzione della gratificazione narcisistica che viene da ciò che il lavoro produce.
Essa, però, può anche assumere un’altra forma, se il lavoratore prende sul serio il senso di quello che sta facendo, e lo riferisce al fine ultimo – anche attraverso la mediazione dei fini infravalenti. Il lavoratore può, in questo modo, diventare protagonista della propria attività, chiedendosi quali possano essere le conseguenze di un certo modo di svolgerla anziché di un altro; chiedendosi quali ne siano i risvolti sociali, l’incidenza sul destino proprio e altrui. Certo, vi sono attività che sembrano più favorevoli a questo genere di responsabilizzazione; ma, in realtà, anche là dove la routine o la fatica tendono a prevalere su altre considerazioni, resta almeno possibile un atteggiamento di “offerta” del proprio sacrificio – ad esempio, ai propri cari, per i quali si lavora, oppure (per chi ha una esplicita fede religiosa) a Dio, per il bene del mondo.
(2) Qualcosa di analogo vale per l’educazione dei figli. Anche qui può esserci un modo parziale di intenderla, tale da comprometterla alla radice: è quello di allevare i figli curando mille aspetti della loro crescita, ma non educando il loro rapporto col destino.
Solo i genitori che cercano di introdurre i figli al rapporto con qualcosa di più originario e più stabile di loro stessi, rispettano veramente la natura personale degli esseri che hanno messo al mondo, i quali non potranno crescere felicemente avendo all’orizzonte solo oggetti e relazioni effimere.
(3a) Al livello della vita sociale, possiamo prendere in considerazione il caso – singolare – della persona che viene chiamata a contribuire alla stesura delle regole supreme di una convivenza civile (attività costituente), o alla stesura di regole che a quelle siano subordinate (attività legislativa). Chi si trova di fronte a responsabilità tanto rilevanti, potrà operare o meno in modo da porre delle regole aperte al riconoscimento e alla promozione della natura propria dell’uomo. Ad esempio, princìpi costituzionali o leggi che non riconoscessero alcuna libertà di iniziativa ai singoli, alle famiglie, ai soggetti (associativi, economici, culturali, religiosi) della società civile – ma tutto subordinassero ad una pianificazione burocratica e amministrativa -, si porrebbero come altrettanti ostacoli tra gli uomini e il raggiungimento del loro fine proprio.
Viceversa, un’attività costituente e legislativa che ponesse al centro la persona e le comunità in cui essa si forma, e che stabilisse nello Stato il garante di una pacifica convivenza tra persone e tra comunità, favorirebbe il cammino umano.
(3b) Un caso simmetrico al precedente è quello di una persona che si trovi a vivere in uno Stato nel quale vigono regole lesive della dignità della persona. Se la persona in questione è consapevole della natura di tali leggi, in nessun modo potrà seguirle in vista del fine ultimo; ma, al contrario, le vedrà come ad esso contraddittorie, e dovrà orientarsi – secondo i casi, e nei modi che riterrà opportuni – verso l’obiezione di coscienza individuale o verso l’opposizione politica organizzata.
(4) Nell’ambito dell’indagine scientifica, qualunque attività di ricerca che giungesse a manipolare l’uomo – foss’anche negli stadi incipienti del suo sviluppo -, usandolo come strumento da sollecitare per l’acquisizione di nuove informazioni, si qualificherebbe come idolatria – nel senso già chiarito -, perché sacrificherebbe il naturale beneficiario della ricerca, alla ricerca stessa, che verrebbe così elevata a fine ultimo. In generale, una attività che trattasse la persona come “cosa”, non potrebbe dirsi orientata al destino proprio dell’uomo: non solo dell’uomo che è usato, ma anche dell’uomo che usa (il quale non potrà, in fondo, avere di sé una coscienza radicalmente diversa da quella che dimostra di avere del suo simile).
4) Il conflitto tra i beni
È normale che la situazione in cui l’uomo sceglie sia luogo di un conflitto tra i diversi bisogni, e dunque tra i beni (o valori) ad essi relativi. Ora, un’ulteriore indicazione che possiamo, al riguardo, ricavare dalla legge morale, è la seguente: volere rettamente il bene, è volerlo secondo l’ordine che gli è proprio (secondo la sua verità), e non secondo un nostro gusto o una nostra immaginazione. Possiamo citare, in proposito, il sobrio e preciso dettato di Antonio Rosmini, che scrive:
“In caso di collisione fra (…) due beni, l’uno in contraddizione diretta coll’altro per sì fatto modo, che l’ottenimento dell’uno escluda quello dell’altro (…); l’uomo, dal principio universale, che il bene morale sta nell’amore dell’essere oggettivo, e che quindi si deve volere ed amare l’essere il più che si possa, ne indurrà la conseguenza, che dunque egli deve preferire l’essere maggiore al minore, il bene maggiore al minore (…), amandosi così la maggiore quantità di essere possibile: ne indurrà ancora la conseguenza, che quell’amore del bene minore, che inchiude e necessita l’odio al bene maggiore, non è un vero amore dell’essere, un vero amore del bene, ma un amore apparente, illusorio e all’incontro è un odio reale, (…) e quindi un’immoralità: ne indurrà finalmente, che il volere e il conseguire un bene minore a scapito di un maggiore, non è punto un volere ed un conseguire un bene, ma sì un volere ed un conseguire un male morale. Da tutte queste osservazioni apparisce manifestamente, che l’atto moralmente buono tende all’essere senza esclusione, senza riserva, e quindi tende necessariamente all’ordine che nell’essere si trova; poiché il rimuovere l’ordine è un limitare l’essere, è un non amarlo più nella sua integrità, nella sua totalità, giacché l’essere è interiormente ed essenzialmente ordinato” (cfr. Rosmini, Princìpi della scienza morale (1831), cap. IV, art. VII).
Non è certo facile giustificare un ordine gerarchico nell’ambito di ciò che è bene per l’uomo; è anche difficile, però, negare che un certo ambito assiologico sia più o meno esplicitamente vicino al bene come tale. Quel bene che è il riconoscimento e l’affermazione della verità, è l’unico che sia in grado di entrare in diretta ed esplicita comunicazione col fine ultimo, e ciò gli conferisce una dignità tale, che ad esso qualunque altro bene dovrà – in linea di principio – cedere il passo. Analogamente, la salvaguardia di quel bene che è la società civile – la quale è poi, concretamente e rettamente intesa, la comunità di tutte le famiglie e le comunità particolari (cfr. Rosmini, Filosofia del diritto, n.1612) – potrà esigere da qualcuno, in casi particolari, la rinuncia alla gioia della propria vita familiare. E, ancora, il bene dei propri cari, può esigere a volte il dono della propria salute o della propria stessa vita.
Schematicamente, possiamo dire che l’ordine secondo il quale abbiamo in precedenza indicato le sfere dei bisogni dell’uomo, corrisponde anche ad un ordine crescente di valori corrispondenti – e quindi ad un generale criterio di preferenza, in caso di conflitto. Resta però da dire che anteporre un bene ad un altro, non deve essere inteso come una rinuncia radicale, bensì come l’unica possibilità concreta di affermare il senso anche di ciò cui immediatamente si rinuncia. Infatti, tener fermo – in caso di conflitto – il valore inferiore, sarebbe un modo autocontraddittorio di affermarlo, perché comporterebbe il rinnegamento di quell’orizzonte complessivo in cui, solo, il valore affermato acquista il suo senso (cioè, è realmente valore).
QUALCHE ESEMPIO:
(1) Un caso classico è quello del conflitto tra la vita fisica e l’affermazione pubblica della verità cui si è dedicata la vita. Sacrificare la vita per affermare ciò che si tiene per assolutamente vero, significa paradossalmente affermare il proprio attaccamento alla vita (cioè a quello che la rende degna di essere vissuta).
(2) Un altro caso estremo di conflitto è quello della madre che rinuncia ad un certo tipo, particolarmente radicale, di cura di una propria malattia, per non compromettere la vita del bambino che ha in grembo. Qui il conflitto non è tanto tra due vite fisiche – come a volte si dà per scontato -, bensì tra due livelli assiologici: da una parte la vita singola, nella sua determinatezza particolare e semplicemente vitale; dall’altra la vita come accoglienza e donazione di altre vite (cioè, la vita come famiglia). Se il conflitto fosse tra due vite fisiche, potrebbe – in linea di principio – essere risolto attraverso considerazioni di tipo consequenzialistico (come in genere si tende a fare). In realtà si tratta di altro.
(3) Un altro caso estremo ed emblematico è quello di chi dona la vita per il bene comune gravemente minacciato; sacrificando con ciò la tranquillità e l’integrità della propria famiglia. Considerato che la rovina della società sarebbe anche – ultimamente – quella della propria famiglia, il sacrificio in questione è un modo estremo di tutelare il bene stesso del proprio nucleo familiare.
(4) Neppure si può dimenticare il caso di un grave conflitto tra l’obbedienza all’autorità costituita dello Stato e la testimonianza che si sa di dover dare alla verità. Si tratta della questione tradizionalmente indicata come quella del “governo tirannico” (che non coincide affatto, di diritto, col governo di una sola persona; cfr. S. Tommaso, De regimine principum, l. I, cap. V). Un regime che usi il potere in modo da tradire alla radice il patto (e quindi la legittimità) su cui si fonda, può essere limitato o anche rovesciato con la forza dal popolo, o comunque dalla autorità da cui ha ricevuto la delega a governare – a meno che questo non implichi il prevedibile rischio di violenze peggiori di quelle cui si vorrebbe rimediare. Questa tesi è sostenuta da una autorevole tradizione , che affonda le sue radici in Tommaso (cfr. De regimine principum, l. I, cap. VI), e giunge fino a uno dei padri del liberalismo moderno: John Locke (cfr. Trattati sul governo civile, cap. XIII).
NB: Abbiamo considerato casi, piuttosto elementari, di conflitto tra sfere assiologiche diverse. Non possiamo però ignorare che sono frequenti anche i conflitti che si collocano all’interno di una medesima sfera assiologica. Al riguardo, i casi sono due.
(1) Il conflitto potrà riguardare beni che, pur all’interno di una medesima sfera, si collocano reciprocamente in un ordine gerarchico riconoscibile. Ad esempio, nella sfera “vitale”, non può ritenersi, in via ordinaria, accettabile un lavoro che leda seriamente la salute di chi lavora (e della comunità in genere) – se il senso stesso del lavoro è di essere funzionale al benessere dell’uomo. Così, a livello socio-politico, non si possono sacrificare interessi socialmente rilevanti, in nome della razionalizzazione della macchina amministrativa. In entrambi i casi – che abbiamo proposto come semplici paradigmi -, si sacrificherebbe irrazionalmente a una realtà particolare, un’altra realtà che ad essa dà senso.
(2) Nel caso, invece, in cui confliggessero beni omologhi (ad esempio, la propria e l’altrui vita, nella “legittima difesa”), interverrebbero considerazioni diverse, tali da coinvolgere il concetto di “giustizia” – di cui parleremo, affrontando il tema delle “virtù”.