“La differenza tra un mero pregiudizio e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo e di luogo con le quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore e così via, in modo da verificare se il fatto si possa ritenere realmente offensivo del bene giuridico protetto”.
Così si esprimeva la relazione ad una delle proposte di legge sui tavoli parlamentari, la proposta Scalfarotto, per spiegare perché una legge sull’omofobia, come quella oggi in discussione, non si configura a violazione della libertà di parola né si propone di punire idee, ma solo “reali discriminazioni”.
Il ddl Zan propone una estensione ai reati e alle aggravanti oggi previste dagli articoli 604bis e 604ter del Codice penale, introdotti dalla famosa “Legge Mancino”, i cosiddetti “reati di odio”. Essi puniscono (art. 604bis) chi “propaganda idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” o chi “istiga a commettere o commette atti di violenza” per gli stessi motivi; o aggravano la pena (art. 604ter) per chi commette altri reati ma “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”.
Si tratta di figure di reati che puniscono quindi non solo la violenza o l’istigazione ad essa, ma anche la “propaganda di odio”, nonché l’istigazione e la commissione di “atti di discriminazione”.
Sono reati di opinione. Puniscono la manifestazione di un pensiero ritenuto così pericoloso, da dover anticipare la punibilità ad esso ed alla sua espressione, prima che si trasformi in qualcosa di più grave.
Il reato di opinione è una assoluta eccezione, nel nostro ordinamento giuridico pluralista e improntato alla libertà di pensiero, parola, espressione. Il diritto penale punisce i fatti: non i pensieri, non le opinioni, non le disposizioni d’animo, per quanto fastidiose o frutto di pregiudizio.
Tale principio, detto di “materialità” del diritto penale, è fondato sulla Costituzione. Evidente il rischio da evitare: che il potere politico di turno utilizzi il reato di opinione per sopprimere idee a sé sfavorevoli, e dunque spazi di libertà.
La legge Mancino, fin dalla sua introduzione, ha subito parecchie critiche da parte degli esperti in diritto costituzionale. Non a caso il legislatore è intervenuto sulla normativa con la L. 85/2006, che ha diminuito le pene e circoscritto le condotte punibili. Si è introdotto il riferimento alla “propaganda” in luogo della “diffusione” di idee fondate sull’odio razziale; e si è sostituita l’espressione “incita” con l’espressione “istiga”. Si tratta di modifiche che cercano di dare un sostrato materiale alle condotte punite per evitare di sanzionare le mere manifestazioni del pensiero. La omologa legge tedesca, per esempio (§ 130 del codice penale tedesco) punisce l’incitamento all’odio solo se esso sia espresso “in maniera idonea a causare un disordine per la pubblica pace”e punisce l’insulto o la diffamazione “di gruppi o sezioni di popolazione o individui sulla base della loro appartenenza”. Come si vede, la legge tedesca esige che la “opinione di odio” si traduca in un qualcosa di più, in un sostrato materiale di una condotta esterna riconoscibile. Insomma, in un fatto, oggettivamente accertabile. L’insulto ad esempio, o la diffamazione. Non la mera espressione di una opinione diversa.
Il motivo per cui si ritiene, non senza parecchi dubbi (1), che le norme Mancino o simili si possano considerare non in contrasto con la libertà di espressione sta essenzialmente nella riconoscibilità storica dei fenomeni ivi descritti. Vi sono precedenti storici consolidati che evidenziano, con grado di probabilità prossima alla certezza, la chiara pericolosità delle idee basate sulla superiorità di una razza o di una etnia sulle altre o che individuano nella razza, nella provenienza etnica e nazionale e nella religione professata un motivo per differenziare il godimento dei diritti e delle libertà della persona (2). Tali idee sono poi, sempre per esperienza storicamente fondata, particolarmente diffuse in minoranze estremistiche, pronte all’uso della violenza per affermare tali convincimenti.
Significativo, per esempio, che la Corte EDU abbia riconosciuto la sussistenza della fattispecie di “negazionismo” solo con riferimento alla Shoah, ma negando la riconducibilità della figura ad altri episodi storici (ad esempio, il genocidio degli Armeni: CEDU, sentenza Perınçek c. Svizzera, 17/12/2013). Il riferimento alla discriminazione religiosa viene inserito, anche nelle fonti internazionali a cui la L. Mancino è ispirata, perché anch’esso storicamente ben definito e perché collegato, soprattutto in certi contesti, inestricabilmente all’elemento etnico-razziale-nazionale.
Tale delicato equilibrio, giustificato per motivi storici e situato comunque al limite della libertà di espressione, si vorrebbe quindi estendere a categorie tutt’altro che certe; prive di storia consistente; mutuate da altre discipline con intento per lo più descrittivo, all’interno di dibattiti scientifici ed antropologici aperti e nei quali i medesimi termini assumono colorazioni diverse (negli stessi progetti di legge inizialmente depositati unitamente al ddl Zan, sussistevano definizioni non pienamente coincidenti); controversi o non incontrovertibili. Quali il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, concetti peraltro da intendersi come separati dal sesso biologico.
In altre parole: discriminazione razziale è istigare l’autobus di “soli bianchi” a non far salire Rosa Park, episodio sul quale la riprovazione sociale è massima, e sui motivi di odio che lo animano e sull’intrinseca pericolosità del quale nessuno seriamente potrebbe dubitare.
Davvero vogliamo giuridicamente inquadrare come consimile “istigazione” il dibattito politico, scientifico, antropologico se sia giusto o meno il riconoscimento del matrimonio delle coppie omosessuali (Corte costituzionale 138/2010: non è corretta l’equiparazione) o sulla necessità di un bambino di crescere nella complementarietà di un padre maschio e di una madre femmina (Corte costituzionale 76/2016: è ammissibile la preclusione legislativa in materia di adozioni) o sulla correttezza ed ammissibilità della pratica della gestazione per altri (Corte costituzionale 221/2019: è lecito impedire alle coppie omosessuali l’accesso alla procreazione medicalmente assistita)?
E davvero vogliamo giuridicamente “paragonare” (dare cioè la medesima risposta punitiva da parte dello Stato, la più grave, quella penale) un Family Day alle manifestazioni paramilitari dei movimenti estremisti neonazisti?
Il rischio è di paralizzare un dibattito su profili antropologici di profondo mutamento sociale, che necessitano più che mai del pluralismo e dell’aperto scambio di opinioni nella società stessa; nonché di generare situazioni paradossali come quella riportata nella frase iniziale della relazione Scalfarotto. La medesima condotta – si dice sostanzialmente – potrà essere oggetto di assoluzione o, al contrario, motivo di condanna, in dipendenza “dalle condizioni di tempo e di luogo con le quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore e così via…”.
Volendo dimostrare la correttezza della operazione, la relazione Scalfarotto dimostra l’esatto opposto: dove la tecnica legislativa è scorretta e la condotta punibile è generica e non ben individuata, si scivola inesorabilmente nella valutazione, nel giudizio e nella condanna delle idee, forse addirittura del sistema valoriale, del preteso “colpevole”, cercando di capire, dai suoi modi, dalla estrinsecazione del suo pensiero, dalle sue precedenti condotte, se sia o meno (s)qualificabile come “omofobo”.
Sembra allora aver ragione chi vede la legge Zan come espressione della volontà non già di tutelare delle minoranze (punendo dei fatti ad esse avversi), bensì di imporre un modello culturale, a fronte del quale qualunque dissenziente, a qualsiasi titolo, viene giudicato per il suo “essere”.
E quindi punito o rieducato.
Avv. Matteo Fortelli
- E. LAMARQUE, I reati di opinione, in AA.VV., Percorsi di diritto dell’informazione, Torino, Giappichelli, 2011; C. FIORE, I limiti di espressione dell’antagonismo politico, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2016, p. 900, secondo il quale «Una democrazia “aperta” dovrebbe assolutamente evitare il ricorso a reati ideologici»; A. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, ibid., p. 689 ss.; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 20147 , pp. 18-19; M. PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen. proc., n. 8/2006, p. 960 ss., e D. PULITANÒ, Riforma dei reati d’opinione?, in Corr. giur., n. 6/2006, p. 746, riferimenti tutti reperibili in http://dirittifondamentali.it/wp-content/uploads/2019/06/Spadaro-Considerazioni-critiche-sulla-legittimit%C3%A0-costituzionale-del-%E2%80%9Cnuovo%E2%80%9D-reato-di-istigazione-all%E2%80%99odio-razziale.pdf
- Si rinvia per una più compiuta disamina sul punto alle pagine di A. MANTOVANO, Omofobi per legge?, Siena, 2020, pp. 46ss