Convegno U.G.C.I. Reggio Emilia 05.10.2021

ESISTE UN DIRITTO A MORIRE? Riflessioni a due anni da Corte Costituzionale n. 242/2019

Martedì 5 Ottobre 2021 presso la Sala del Museo Diocesano c/o Palazzo Vescovile, innVia Vittorio Veneto, 6 – Reggio Emilia

Ore 15,30 – 18,30

SALUTI

Avv. Federica Davoli, Presidente dell’UGCI di Reggio Emilia

Avv. Enrico Della Capanna, Presidente del COA di Reggio Emilia

Avv. Raffaella Pellini, Segretario delle Camere Penali di Reggio Emilia

INTERVENGONO

Prof. Cesare Mirabelli, già Presidente della Corte costituzionale

Avv. Carmelo Leotta, Professore associato di diritto penale presso l’Università Europea di Roma

Mons. Massimo Camisasca, Vescovo di Reggio Emilia – Guastalla

Il convegno sarà trasmesso in diretta YouTube sul canale “La Libertà TV” https://www.youtube.com/c/lalibertatv

Evento accreditato dall’Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia (2 crediti formativi IN PRESENZA)

Con il patrocinio di:

Ordine degli Avvocati di Reggio Emilia – Camera penale di Reggio Emilia 

Museo Diocesano di Reggio Emilia-Guastalla

Ma cos’è il DdL Zan?

Molti parlano del ddl Zan senza averlo neppure letto, senza mai avere approfondito le questioni essenziali per la nostra civiltà anche giuridica che lo stesso pone, e senza neppure conoscere il significato delle espressioni usate nel testo di cui i ”progressisti chiedono la urgente approvazione come questione di vita o di morte, essenziale alla nostra sopravvivenza, gli altri “i retrogradi, medioevali, conservatori e tradizionalisti (termine che si vuole usare per la massima offesa) nel sottolinearne la non necessità sociale, specie nel periodo che stiamo vivendo, ne chiedono la radicale eliminazione.

Ci sembra elementarmente necessario ricordare il significato dei termini che l’art. 1 pone a base dell’intero ddl.

Che significato hanno per il ddl Zan i termini sesso –genere- orientamento sessuale- ed identità di genere?

Spiega l’art. 1: per sesso si intende il sesso biologico o anagrafico; per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; per identità di genere si intende l’identificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corrispondente al sesso, indipendentemente dall’aver concluso un percorso di transizione”. 

Da tali definizioni la incertezza giuridica regna sovrana.

Nessun problema ovviamente per la definizione di sesso biologico, se per tale si intendono il sesso maschile o femminile riconosciuto come tale dall’ordinamento giuridico

Maggiori problemi per il sesso anagrafico che però in Italia al momento corrisponde al sesso biologico

I problemi nascono col “genere- l’orientamento sessuale e l’identità di genere

Iniziamo col “genere” che l’art. 1 del DDL Zan lega alla sola manifestazione esteriore della persona (vestirsi da uomo o da donna per alcuni momenti o sempre,) in maniera conforme o non conforme alle aspettative sociali connesse al sesso biologico quindi ad elementi vaghi e del tutto soggettivi. 

Collegata a questa definizione di genere vi è quella della identità di genere che consiste nella percezione e manifestazione di se stessi in relazione al genere anche se non corrispondente al sesso biologico e anche senza avere compiuto un percorso di transizione. Il gender è quindi un costruzione sociale e culturale sganciata dal dato biologico vi è quindi una decostruzione del sesso biologico per costruire il sesso sociale. 

Quindi genere ed identità di genere sono scollegati dal sesso ma dipendenti dalle manifestazioni esteriori, per cui lo stesso soggetto può essere maschio o femmina a seconda delle sue manifestazioni esteriori anche in giorni diversi ed in orari diversi della giornata. Quindi la sua identità di genere può o meno essere sempre conforme al suo sesso biologico in maniera alterna o continuata.

Quanto all’orientamento sessuale, si tratta di una difficile definizione dato che l’orientamento sessuale non è stabile e non si collega ad elementi di stabilità temporale, può essere mutevole, ed un soggetto potrebbe essere attratto oggi da uno dello stesso sesso e domani da uno di sesso diverso a seconda della situazione in cui si trova e può essere rivolto anche a più persone contemporaneamente

La cosiddetta teoria del gender, quindi, esprime il diritto di ciascuno di scegliere la propria identità sessuale indipendentemente dalla natura, senza valutare che tale diritto implica scelte morali religiose psicologiche che il ddl dimentica o bypassa.

È nel 2010 che l’OMS dichiara il gender diritto alla salute, con la conseguente necessità della libertà di scelta del proprio orientamento sessuale. E’ da quel momento che Il gender lascia la teoria per entrare nella politica dei parlamenti europei. Il concetto ambiguo della salute sessuale che comprende anche la libertà di scegliere il proprio orientamento sessuale trasforma un fatto naturale in culturale frutto di libera e variabile scelta individuale. 

Diventa diritto per cui la condizione sessuale scelta deve cambiare il Diritto positivo con la distruzione del diritto naturale.

Paola Mescoli – UGCI Reggio Emilia

Legge contro omofobia

In Senato dovrà essere discussa la proposta di legge contro l’omofobia e la transfobia, nota come DDL Zan, sintesi di cinque diverse proposte di legge del medesimo tenore: val la pena di farne un esame e riflettere insieme. 

La proposta di legge n. 569, presentata il 2 Maggio 2018 dall’on. Zan e altri, riguarda gli artt. 604 bis e 604 ter del Codice Penale, che punisce chiunque, da solo o riunito in associazione, “propaganda idee” o “istiga a commettere o commette atti di discriminazione” e chi “istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza” “per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi”. La proposta di legge prevede che nell’elenco dei motivi dei reati si aggiunga “per motivi di orientamento sessuale o identità di genere”.

Precisiamo innanzitutto, anche se si tratta di cosa ovvia, che le offese, le discriminazioni o le violenze contro gli omosessuali sono già punite dalle norme generali del Codice Penale. La modifica di legge comporterebbe dunque solo un aggravamento delle pene e un impegno a mettere all’ordine del giorno anche giuridicamente un problema di particolare rilevanza.

La modifica di per sé è inserita in quella tutela delle minoranze che oggi è così sentita dalla nostra cultura e può sembrare un’innocente precisazione; in realtà solleva molte difficoltà, anche per la situazione storica in cui è inserita. Il movimento gay è oggi quanto mai agguerrito e la sua azione ha già creato grossi danni all’istituto della famiglia e ne promette altri. Inoltre, proprio per le pressioni sull’opinione pubblica, l’interpretazione che in sede giuridica si dà alle parole “propaganda” o “istigazione” è quanto mai ampia. Si pensi ad esempio al fatto che oggi non si possono chiamare “negri” gli abitanti dell’Africa, ma bisogna chiamarli “neri”, nella presunzione che il secondo termine sia meno offensivo del primo.

Questo fa sì che la norma proposta, se approvata, impedirebbe a chiunque di dire pubblicamente il proprio parere sul fenomeno gay, o sulla teoria dei gender o su qualunque argomento similare, qualora non sia in totale assenso con le teorie gay. Eppure l’argomento è molto importante, poiché comporta una scelta di vita che finisce per coinvolgere, poco o tanto, anche gli altri e sulla quale sono legittime scelte contrapposte. 

In altre parole con questa norma viene impedito il libero dibattito delle idee. Né si può obbiettare che si tratta di timori infondati e che c’è differenza tra esporre le proprie idee e fare propaganda, visto che proprio a Reggio è successo che si è multata una madre che, durante il coronavirus, ha abbracciato il suo bambino che non vedeva da mesi. Sarà curioso vedere dei carabinieri che si precipitano in un bar perché un cliente ne ha sentito un altro parlare di gay o lesbiche. 

D’altra parte il fenomeno gay è assai complesso ed interessa politici, economisti, psicologi, insegnanti e padri di famiglia: a nessuno di costoro possiamo porre dei divieti, che non siano quelli normali di legge.

Interessa certo anche la Chiesa, visto i difficili problemi morali che coinvolge. Con la formulazione proposta un sacerdote non potrebbe più leggere in chiesa il primo capitolo della lettera di S. Paolo ai Romani.

Inoltre la legge ha bisogno di una preventiva definizione della realtà gay, poiché, se l’inclinazione omosessuale è un fatto naturale che riceviamo alla nascita, è evidente che un individuo con inclinazioni omosessuali ha la stessa dignità umana degli altri e non può essere sottoposto a discussione, ma se, in base alla recente e famigerata teoria dei gender, l’omosessualità è una scelta come varie altre, allora è ovvio che ognuno la debba discutere in piena libertà di pensiero e di parola.

Infine, è assai pericoloso legiferare sotto la pressione di movimenti d’opinione settoriali e transeunti: ne derivano leggi non solo squilibrate in sé, ma anche destinate ad invecchiare troppo rapidamente. 

A cura di UGCI Reggio Emilia

La libertà di espressione

In queste poche parole “Libertà di espressione” si racchiude la centralità del nostro essere umani, individui razionali, empatici e compassionevoli.

La nostra Costituzione racchiude in sé questo diritto “magico” che in combinato disposto con il rispetto dell’altro, dovutogli solo per il fatto di esistere, ha consentito ai popoli di liberarsi da regimi oppressivi e totalitari.

L’art. 21, I comma, della Costituzione Italiana recita così: ”Tutti hanno diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione.”

Ciascuno di noi, tranne in caso di delitti o dichiarazioni contrarie al buon costume, può liberamente manifestare le proprie opinioni o può non manifestarle, senza che alcuno possa ostacolarci, fisicamente e verbalmente.

Purtroppo questo nostro diritto, per il quale i nostri antenati si sono battuti anche a costo della vita, è sempre di più sotto attacco, in nome di una uniformità di pensiero, del “politicamente corretto” (concetto non ben definito e privo di connotazione). Per dirla con un termine inglese che va tanto di moda, tutti ci dovremmo uniformare al “mainstream”, il pensiero dominante. 

Ma perché? Per quale motivo dobbiamo uniformarci ad unico pensiero? Perché dobbiamo privarci dell’arte della dialettica, dell’argomentazione, del piacere del confronto? Perché dovremmo privarci anche solo del piacere dell’ascolto dell’altro, senza dare giudizi né opinioni? E, ancora, perché dovremmo privarci di un piacere ancora più intenso, più appagante: il piacere di trovare punti in comune in opinioni apparentemente contrastanti e fare dunque una sintesi di interessi che, magari, non sono poi così contrapposti.

Il voler condurre la comunità a pensare in modo univoco non è una cosa nuova, avviene da secoli, non solo nelle dittature nei confronti del popolo, ma anche nei rapporti tra due persone, nelle famiglie e nei rapporti di amicizia.

Ricordo come se fosse oggi quando, mentre frequentavo il liceo, dopo aver assistito ad una rappresentazione teatrale, in mezzo ad un coro pressoché unanime di opinioni negative, mi sono azzardata ad esprimere un giudizio positivo su alcuni aspetti dello spettacolo: ebbene mi è stato detto (da un’amica) “…ma a te va sempre bene tutto, non hai opinioni…”. Chiaramente non era vero, io un’opinione l’avevo e l’avevo anche espressa, ma non andava bene al gruppo e, quindi, invece di contestare la mia affermazione hanno preferito contestare me. E’ stata un’esperienza formativa, tanto che la ricordo vividamente ed altrettanto vividamente ricordo quanto imparato dallo studio degli autori greci e latini e dei filosofi, che mi hanno insegnato che non esiste un unico pensiero, ma tanti pensieri diversi e che tutti meritano rispetto ed insieme aiutano le comunità a crescere libere ed in armonia con ciò che le circonda.

Mi chiedo quale possa essere la paura profonda di coloro che oramai ovunque sui social, sulle televisioni, sui giornali ed in ogni genere di occasione pubblica o privata, vogliono comprimere e schiacciare la libertà di espressione, aggredendo verbalmente chi espone idee diverse, dileggiando ed ironizzando. Temono forse di non avere idee abbastanza forti, aggreganti, condivisibili?

La libertà deve essere il centro del nostro universo, un dovere prima che un diritto: libertà di vivere, di crescere, di curarci, di pensare, di studiare, di discutere, di arrabbiarci, di fare pace, di amare, di perdonare e di dire quello che pensiamo.

Dobbiamo presidiare questo nostro tanto inalienabile quanto fragile diritto ed insegnare ai più giovani a difenderlo, ricordando le parole del Presidente Sandro Pertini che nel suo discorso alle Camere, dopo la sua elezione, il 9 luglio 1978, disse “…se a me socialista da sempre proponessero la più radicale delle riforme sociali in cambio della libertà, la rifiuterei, perché la libertà non è mai barattabile…” e anni dopo, rivolto ai giovani, durante il suo discorso di Capodanno del 31/12/1983, affermò “battetevi sempre per la libertà, per la pace, per la giustizia sociale…ma siate sempre tolleranti…lottate con la passione con cui ho lottato io e con cui lotto ancora oggi… per le vostre idee e per i vostri principi…ma io vorrei che teneste presente un ammonimento: ‘dico al mio avversario: io combatto la tua idea che è contraria alla mia, ma sono pronto a battermi sino al prezzo della mia vita affinché tu la tua idea la possa esprimere sempre liberamente…’”.

Concludendo se vogliamo parlare “politamente corretto”, allora dobbiamo accettare le opinioni altrui e rispettarle, anche se non le condividiamo e le contestiamo.

Liliana Bertolini – UGCI Reggio Emilia

Il cavallo di Troia

Il ddl Zan dà per scontata la accettazione senza discussione della teoria del gender, e parte da tale accettazione come se fosse un principio ormai pacificamente accettato.

Il che non è.

La gente sa perfettamente che in natura non è così ed è grave che il mondo cattolico non si ribelli ad una tale imposta accettazione.

Solo per evitare i cosiddetti scontri ideologici non si dichiara apertamente che dietro la ideologia del gender operano due grandi forze, entrambe di gravissime conseguenze:

la prima è ideologico neomarxista che si rifà alla scuola di Francoforte, che vuole capovolgere i principali parametri antropologici sui quali si è sviluppata la società umana dal suo inizio. Lo scopo principale di tale ideologia è liquidare la famiglia tradizionale ed eliminare la legge naturale dalle coscienze, a partire dalla coscienza dei bambini fin dalla tenera età, attraverso la sessualizzazione precoce;
la seconda è di carattere materiale e finanziario: fecondazione in vitro, cambiamento di sesso, utero in affitto, aborti. Vi sono milioni di dollari di profitti. Che il grande capitale sia interessato a questo grande business spiega perché tutta la grande stampa sia tutta pro LGBT e pro DDL Zan. 

E’ dovere del mondo cattolico gridare dai tetti che il DDl Zan non serve è dannoso, segna la fine della civiltà del diritto e la negazione non solo del diritto naturale, ma della stessa natura.

In un momento in cui si celebra l’ambiente, ma pare vietato chiamare l’ambiente “natura”, anzi lo si distingue da questa, come se la natura umana fosse avulsa dall’ambiente. Papa Francesco nella Laudato sì…scrive “(parte III n 5) L’ecologia umana implica anche qualcosa di molto profondo: la necessaria relazione della vita dell’essere umano con la legge morale inscritta nella sua propria natura, relazione indispensabile per poter creare un ambiente più dignitoso. Affermava Benedetto XVI che esiste una «ecologia dell’uomo» perché «anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere». In questa linea, bisogna riconoscere che il nostro corpo ci pone in una relazione diretta con l’ambiente e con gli altri esseri viventi. L’accettazione del proprio corpo come dono di Dio è necessaria per accogliere e accettare il mondo intero come dono del Padre e casa comune; invece una logica di dominio sul proprio corpo si trasforma in una logica a volte sottile di dominio sul creato. Imparare ad accogliere il proprio corpo, ad averne cura e a rispettare i suoi significati è essenziale per una vera ecologia umana. Anche apprezzare il proprio corpo nella sua femminilità o mascolinità è necessario per poter riconoscere sé stessi nell’incontro con l’altro diverso da sé. In tal modo è possibile accettare con gioia il dono specifico dell’altro o dell’altra, opera di Dio creatore, e arricchirsi reciprocamente. Pertanto, non è sano un atteggiamento che pretenda di «cancellare la differenza sessuale perché non sa più confrontarsi con essa»”

Ma come è capitato con altri grandi temi etici diventati legge, ricordiamo per tutti l’aborto, la ideologia ha preceduto la vita ed i comportamenti delle persone, ed ha finito per determinarli.

Quando il Diritto precede ed influisce sul costume, la gente pensa che sia eticamente corretto ciò che è giuridicamente lecito.

ILDDL ZAN È pericoloso non per la punizione della omotransfobia che fra l’altro checchè ne dica la propaganda LGBT non è affatto una emergenza essendo i comportamenti discriminatori già puniti nel codice penale, ma per la introduzione pacifica ed indiscussa del gender.

IL Parlamento finisce per essere gravemente colpevole nel volere disciplinare legislativamente ciò che deve essere invece lasciato alla coscienza ed ai diritti personalissimi dell’uomo.

Il DDL Zan è il CAVALLO DI TROIA per l’ingresso nel Diritto della teoria del gender con le conseguenze sulla visione della vita, della educazione e della crescita umana e morale delle persone a partire dai più bisognosi: i bambini.

Ddl Zan: punizione di fatti o caccia all’omofobo?

“La differenza tra un mero pregiudizio e una reale discriminazione dipenderà ovviamente dalle condizioni di tempo e di luogo con le quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore e così via, in modo da verificare se il fatto si possa ritenere realmente offensivo del bene giuridico protetto”.

Così si esprimeva la relazione ad una delle proposte di legge sui tavoli parlamentari, la proposta Scalfarotto, per spiegare perché una legge sull’omofobia, come quella oggi in discussione, non si configura a violazione della libertà di parola né si propone di punire idee, ma solo “reali discriminazioni”.

Il ddl Zan propone una estensione ai reati e alle aggravanti oggi previste dagli articoli 604bis e 604ter del Codice penale, introdotti dalla famosa “Legge Mancino”, i cosiddetti “reati di odio”. Essi puniscono (art. 604bis) chi “propaganda idee fondate sulla superiorità e sull’odio razziale o etnico ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi” o chi “istiga a commettere o commette atti di violenza” per gli stessi motivi; o aggravano la pena (art. 604ter) per chi commette altri reati ma “per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso”.

Si tratta di figure di reati che puniscono quindi non solo la violenza o l’istigazione ad essa, ma anche la “propaganda di odio”, nonché l’istigazione e la commissione di “atti di discriminazione”.

Sono reati di opinione. Puniscono la manifestazione di un pensiero ritenuto così pericoloso, da dover anticipare la punibilità ad esso ed alla sua espressione, prima che si trasformi in qualcosa di più grave.

Il reato di opinione è una assoluta eccezione, nel nostro ordinamento giuridico pluralista e improntato alla libertà di pensiero, parola, espressione. Il diritto penale punisce i fatti: non i pensieri, non le opinioni, non le disposizioni d’animo, per quanto fastidiose o frutto di pregiudizio. 

Tale principio, detto di “materialità” del diritto penale, è fondato sulla Costituzione. Evidente il rischio da evitare: che il potere politico di turno utilizzi il reato di opinione per sopprimere idee a sé sfavorevoli, e dunque spazi di libertà.

La legge Mancino, fin dalla sua introduzione, ha subito parecchie critiche da parte degli esperti in diritto costituzionale. Non a caso il legislatore è intervenuto sulla normativa con la L. 85/2006, che ha diminuito le pene e circoscritto le condotte punibili. Si è introdotto il riferimento alla “propaganda” in luogo della “diffusione” di idee fondate sull’odio razziale; e si è sostituita l’espressione “incita” con l’espressione “istiga”. Si tratta di modifiche che cercano di dare un sostrato materiale alle condotte punite per evitare di sanzionare le mere manifestazioni del pensiero. La omologa legge tedesca, per esempio (§ 130 del codice penale tedesco) punisce l’incitamento all’odio solo se esso sia espresso “in maniera idonea a causare un disordine per la pubblica pace”e punisce l’insulto o la diffamazione “di gruppi o sezioni di popolazione o individui sulla base della loro appartenenza”. Come si vede, la legge tedesca esige che la “opinione di odio” si traduca in un qualcosa di più, in un sostrato materiale di una condotta esterna riconoscibile. Insomma, in un fatto, oggettivamente accertabile. L’insulto ad esempio, o la diffamazione. Non la mera espressione di una opinione diversa.

Il motivo per cui si ritiene, non senza parecchi dubbi (1), che le norme Mancino o simili si possano considerare non in contrasto con la libertà di espressione sta essenzialmente nella riconoscibilità storica dei fenomeni ivi descritti. Vi sono precedenti storici consolidati che evidenziano, con grado di probabilità prossima alla certezza, la chiara pericolosità delle idee basate sulla superiorità di una razza o di una etnia sulle altre o che individuano nella razza, nella provenienza etnica e nazionale e nella religione professata un motivo per differenziare il godimento dei diritti e delle libertà della persona (2). Tali idee sono poi, sempre per esperienza storicamente fondata, particolarmente diffuse in minoranze estremistiche, pronte all’uso della violenza per affermare tali convincimenti.

Significativo, per esempio, che la Corte EDU abbia riconosciuto la sussistenza della fattispecie di “negazionismo” solo con riferimento alla Shoah, ma negando la riconducibilità della figura ad altri episodi storici (ad esempio, il genocidio degli Armeni: CEDU, sentenza Perınçek c. Svizzera, 17/12/2013). Il riferimento alla discriminazione religiosa viene inserito, anche nelle fonti internazionali a cui la L. Mancino è ispirata, perché anch’esso storicamente ben definito e perché collegato, soprattutto in certi contesti, inestricabilmente all’elemento etnico-razziale-nazionale.

Tale delicato equilibrio, giustificato per motivi storici e situato comunque al limite della libertà di espressione, si vorrebbe quindi estendere a categorie tutt’altro che certe; prive di storia consistente; mutuate da altre discipline con intento per lo più descrittivo, all’interno di dibattiti scientifici ed antropologici aperti e nei quali i medesimi termini assumono colorazioni diverse (negli stessi progetti di legge inizialmente depositati unitamente al ddl Zan, sussistevano definizioni non pienamente coincidenti); controversi o non incontrovertibili. Quali il genere, l’orientamento sessuale, l’identità di genere, concetti peraltro da intendersi come separati dal sesso biologico. 

In altre parole: discriminazione razziale è istigare l’autobus di “soli bianchi” a non far salire Rosa Park, episodio sul quale la riprovazione sociale è massima, e sui motivi di odio che lo animano e sull’intrinseca pericolosità del quale nessuno seriamente potrebbe dubitare. 

Davvero vogliamo giuridicamente inquadrare come consimile “istigazione” il dibattito politico, scientifico, antropologico se sia giusto o meno il riconoscimento del matrimonio delle coppie omosessuali (Corte costituzionale 138/2010: non è corretta l’equiparazione) o sulla necessità di un bambino di crescere nella complementarietà di un padre maschio e di una madre femmina (Corte costituzionale 76/2016: è ammissibile la preclusione legislativa in materia di adozioni) o sulla correttezza ed ammissibilità della pratica della gestazione per altri (Corte costituzionale 221/2019: è lecito impedire alle coppie omosessuali l’accesso alla procreazione medicalmente assistita)?

E davvero vogliamo giuridicamente “paragonare” (dare cioè la medesima risposta punitiva da parte dello Stato, la più grave, quella penale) un Family Day alle manifestazioni paramilitari dei movimenti estremisti neonazisti?

Il rischio è di paralizzare un dibattito su profili antropologici di profondo mutamento sociale, che necessitano più che mai del pluralismo e dell’aperto scambio di opinioni nella società stessa; nonché di generare situazioni paradossali come quella riportata nella frase iniziale della relazione Scalfarotto. La medesima condotta – si dice sostanzialmente – potrà essere oggetto di assoluzione o, al contrario, motivo di condanna, in dipendenza “dalle condizioni di tempo e di luogo con le quali si manifesterà il messaggio, dalle modalità di estrinsecazione del pensiero, da precedenti condotte dell’autore e così via…”.

Volendo dimostrare la correttezza della operazione, la relazione Scalfarotto dimostra l’esatto opposto: dove la tecnica legislativa è scorretta e la condotta punibile è generica e non ben individuata, si scivola inesorabilmente nella valutazione, nel giudizio e nella condanna delle idee, forse addirittura del sistema valoriale, del preteso “colpevole”, cercando di capire, dai suoi modi, dalla estrinsecazione del suo pensiero, dalle sue precedenti condotte, se sia o meno (s)qualificabile come “omofobo”.

Sembra allora aver ragione chi vede la legge Zan come espressione della volontà non già di tutelare delle minoranze (punendo dei fatti ad esse avversi), bensì di imporre un modello culturale, a fronte del quale qualunque dissenziente, a qualsiasi titolo, viene giudicato per il suo “essere”. 

E quindi punito o rieducato.                  

Avv. Matteo Fortelli

  • E. LAMARQUE, I reati di opinione, in AA.VV., Percorsi di diritto dell’informazione, Torino, Giappichelli, 2011; C. FIORE, I limiti di espressione dell’antagonismo politico, in Riv. it. dir. proc. pen., n. 2/2016, p. 900, secondo il quale «Una democrazia “aperta” dovrebbe assolutamente evitare il ricorso a reati ideologici»; A. SPENA, Libertà di espressione e reati di opinione, ibid., p. 689 ss.; G. FIANDACA – E. MUSCO, Diritto penale. Parte generale, Bologna, Zanichelli, 20147 , pp. 18-19; M. PELISSERO, Osservazioni critiche sulla legge in tema di reati di opinione: occasioni mancate e incoerenze sistematiche, in Dir. pen. proc., n. 8/2006, p. 960 ss., e D. PULITANÒ, Riforma dei reati d’opinione?, in Corr. giur., n. 6/2006, p. 746, riferimenti tutti reperibili in http://dirittifondamentali.it/wp-content/uploads/2019/06/Spadaro-Considerazioni-critiche-sulla-legittimit%C3%A0-costituzionale-del-%E2%80%9Cnuovo%E2%80%9D-reato-di-istigazione-all%E2%80%99odio-razziale.pdf
  • Si rinvia per una più compiuta disamina sul punto alle pagine di A. MANTOVANO, Omofobi per legge?, Siena, 2020, pp. 46ss

Nel testo un motore fortemente ideologico

Mi inserisco nel dibattito, assai vivace, che si è riacceso intorno al disegno di legge “Zan” (in realtà di iniziativa di circa 170 deputati) riproponendo una netta divisione di opinioni sul tema della omotransfobia e sulle relative previsioni punitive che si vorrebbero introdurre nel nostro ordinamento giuridico, all’interno del codice penale. Ebbene, la lettura del testo delle “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità”, impone non poche riflessioni. Mi limito, peraltro, ad analizzare in chiave critica questa proposta di legge nella sola prospettiva di quello che dovrebbe essere il percorso di ideazione e di costruzione della norma penale nel doveroso rispetto dei principi fondamentali del nostro sistema giuridico. In tal senso, a prescindere da ogni radicalizzazione di opinioni che necessariamente segna questa discussione sul piano sociale, etico e culturale, ritengo di dover esprimere un giudizio tecnico negativo. Sotto il profilo sistematico, la scelta pare quella di inserire nel sistema nuove previsioni di reato e di circostanze aggravanti quali integrazioni di norme esistenti, vale a dire l’art. 604-bis e l’art. 604-ter c.p., che puniscono la “Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etica e religiosa (norme introdotte con il D. Lvo n. 21/2018) e che, pertanto, dovrebbero arrivare a punire le medesime condotte (non certo tassativamente indicate nelle stesse norme, per così dire, di origine) finalizzate ad istigare o a commettere atti discriminatori fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità; ciò rivela un motore ideologico particolarmente spinto, foriero dunque, anche all’interno del processo e delle aule di giustizia, di questioni e problematiche interpretative di tale natura. Il rischio assai evidente, per intenderci, è che la estrema genericità e la perdita di “tipicità” della norma, vale a dire della individuazione precisa del comportamento sanzionato e degli indici rivelatori delle motivazioni che hanno determinato quel singolo comportamento, possa offrire il destro a pericolosi spazi e dilatazioni interpretative di natura ideologica. Non va dimenticato, infatti, che il giudice è pur sempre un “uomo”, inteso nel senso più ampio della parola, necessariamente guidato e condizionato dalle proprie convinzioni e ideologie, per cui lo spazio decisionale offertogli dalla norma rappresenta una seria criticità che non può essere ignorata dal legislatore in quanto urta contro il principio di tassatività, intesa come precisione della norma penale, che discende dal più generale principio di legalità (art. 25 Cost.). Lascia poi assai perplessi l’art. 4 del disegno di legge in questione che propone un’affermazione di “Pluralismo delle idee e libertà delle scelte”, ritenendo di dover esplicitare la sacrosanta (dico io, ma molto prima di me lo dice la Costituzione all’art. 21!) “salvezza” della libera espressione di convincimenti od opinioni nonché delle condotte legittime riconducibili al pluralismo delle idee o alla libertà delle scelte, ponendo, tuttavia, un limite ad esse laddove tali manifestazioni dei propri diritti costituzionali siano “idonee a determinare il concreto pericolo del compimento di atti discriminatori o violenti”. Ebbene, sempre e solo su un piano tecnico, si tratta di una proposta che suona come il tentativo di piantare una bandiera ideologica anche all’interno di in un sistema, quello penale, che non può ammettere radicali soggettivizzazioni del pensiero e che del resto ha già in sé i più efficaci strumenti di contrasto e di lotta contro ogni forma di aggressione e violenza ai danni dell’uomo, inteso unicamente ed in modo omnicomprensivo quale essere umano, chiunque esso sia e senza alcuna differenza.

Avv. Giovanni Tarquini

Focus sul principio di tassatività della legge penale

Uno dei principi cardine del nostro ordinamento penale risulta essere il c.d. principio di tassatività della legge penale.

Esso, pur non trovando espresso riconoscimento nella Costituzione, viene indirettamente desunto dalla ratio dell’art. 25 Cost., a completamento del principio di legalità e riserva di legge: il principio di legalità sarebbe infatti rispettato nella forma, ma eluso nella sostanza se la legge che eleva a reato un dato fatto lo configurasse in termini così generici da rendere impossibile individuare il comportamento penalmente sanzionato. Ecco che diventa indispensabile il rispetto della tassatività o sufficiente determinatezza della fattispecie penale.

Il principio di tassatività opera pertanto simultaneamente su due fronti: da un lato impone al legislatore, al momento della creazione di una norma, il rispetto di una precisa determinazione; dall’altro, vincola il giudice ad un’applicazione “tassativa”, appunto, della norma. In altre parole, vieta cioè l’estensione analogica della norma; preclude tanto l’analogia “legis”, l’applicazione della norma a casi analoghi, quanto l’analogia “iuris”, l’applicazione del principio dell’ordinamento giuridico a casi analoghi. Ancora vieta tanto l’analogia “in malam partem” (a sfavore)l’applicazione di norme che prevedono sanzioni più gravose, quanto l’analogia “in bonam partem” (a favore), l’applicazione di norme che prevedono sanzioni più favorevoli. Tutto ciò nel rispetto della regola portante del nostro ordinamento secondo cui “nullum crimen, nulla poena” (nessuna pena senza legge).

Volendo ampliare ulteriormente il discorso, il principio di tassatività riveste un ruolo centrale nel garantire il buon funzionamento dell’intero sistema penale proprio di uno Stato democratico. Quanto più, infatti, il cittadino è posto nella condizione di comprendere senza ambiguità l’astratta linea di demarcazione tra lecito ed illecito, tanto più sarà portato ad orientare la propria condotta in conformità alle norme penali imposte, solidificando così il proprio rapporto di fiducia nei confronti dello Sato e delle istituzioni. 

Perché il principio di tassatività fino a questo punto descritto possa concretamente essere rispettato, pare necessario il rispetto di precise tecniche di legiferazione. Queste sono principalmente due: le tecniche di normazione descrittiva e le tecniche di normazione sintetica. La normazione descrittiva, avvalendosi dei c.d. elementi descrittivi, serve a delineare il fatto tipico con l’uso di termini che fanno riferimento alla realtà oggettiva e concreta; capire il significato di tali elementi risulta facile, tuttavia, con l’applicazione della sola tecnica di normazione descrittiva, il legislatore dovrebbe utilizzare elementi infiniti per descrivere la fattispecie e con molta probabilità rischierebbe di ometterne alcuni lasciando indeterminata la norma incriminatrice. Pertanto, per evitare di incombere nel suddetto eccesso casistico, si ricorre alle tecniche di normazione sintetica le quali, permettendo l’inserimento di elementi normativi giuridici che rinviano ad un fonte del diritto esterna alla fattispecie e di elementi normativi extra giuridici che rinviano a norme sociali o di buon costume, forniscono un parametro regolatore per lo specifico caso concreto.

Dott. Alice Felici 

Ma cos’è la “discriminazione” (1)?

Il ddl Zan si propone di punire, nel suo punto più delicato e controverso, la discriminazione per motivi di sesso, genere, orientamento sessuale, identità di genere.

Tali categorie vengono introdotte con le definizioni di cui all’art. 1:

“a) per sesso si intende il sesso biolo­gico o anagrafico; b) per genere si intende qualunque manifestazione esteriore di una persona che sia conforme o contrastante con le aspettative sociali connesse al sesso; c) per orientamento sessuale si intende l’attrazione sessuale o affettiva nei confronti di persone di sesso opposto, dello stesso sesso, o di entrambi i sessi; d) per identità di genere si intende l’i­dentificazione percepita e manifestata di sé in relazione al genere, anche se non corri­spondente al sesso, indipendentemente dal­ l’aver concluso un percorso di transizione”.

Si tratta di definizioni mutuate dal dibattito nelle scienze psicologiche e su cui non v’è uniformità di definizione. Concetti fluidi, che comportano una fluidità della norma assolutamente inaccettabile per i principi del diritto penale e per il fondamentale e basilare principio di civiltà per cui nessuno può essere punito se non in virtù di una legge in vigore (nulla poena sine lege – nessuna pena senza legge). Una legge non chiara non chiarisce al cittadino cosa è penalmente rilevante e dunque è come se non vi fosse.

Ma il torto maggiore di simili legislazioni è forse ancora più a monte, nel non chiarire in modo specifico cosa si intenda per discriminazione.

L’ordinamento statunitense, da tempo alle prese con simili problematiche, già dagli anni Novanta aveva posto alcuni paletti di ragionevolezza, che l’ondata degli ultimi anni pare aver superficialmente dimenticato.

Anzitutto, occorre chiarire la differenza tra discriminazione e distinzione. La discriminazione differenzia il trattamento delle persone in ragione di fattori irrilevanti al fine del trattamento stesso, con lo scopo quindi ingiusto ed odioso di marcare la superiorità di una condizione rispetto ad un’altra. Predisporre lavandini diversi per bianchi e neri; impedire alle donne l’accesso a determinati gradi di istruzione: ecco i casi di discriminazione. Si ha distinzione, invece, quando il fattore viene preso in considerazione perché rilevante ai fini della situazione specifica e quindi inidoneo a danneggiare alcuno; anzi posto a tutela della diversità del caso. I bagni distinti per maschi e femmine; i dormitori distinti a seguito dell’ammissione delle donne nell’esercito: casi di distinzione non discriminatoria, anzi volta a tutelare il diritto costituzionale alla privacy sul proprio corpo, di maschi e femmine.

Altro importante fondamento è la differenza tra discriminazione e disaccordo. Il fioraio che si rifiuti di vendere a persone LGBT opera una evidente discriminazione: non vi è alcun collegamento tra la vendita di un fiore e l’orientamento sessuale o l’identità di genere del cliente. Il fioraio che abbia quale cliente abituale una persona LGBT, conoscendone la condizione, e rifiuti di approntare il “servizio nuziale” per il suo matrimonio same-sex è in disaccordo sulla concezione di matrimonio, ma non ha nulla contro il cliente. Non opera una discriminazione, esprime una opinione: per anni ha servito il cliente, normalmente e senza problemi, pur essendo a conoscenza del suo orientamento (2).

Mr. Jack Philips ha subito una pesante condanna per discriminazione dalla Commissione per i diritti civili del Colorado, per essersi rifiutato di realizzare una “torta nuziale” per un matrimonio same sex. Jack aveva offerto altri prodotti dolciari o torte standard ma aveva educatamente declinato l’invito a realizzare la torta specifica. Ancora una volta la Corte Suprema ha riconosciuto che non vi era discriminazione per le persone, ma solo espressione di diverse convinzioni sull’oggetto: il Primo Emendamento garantisce che chiunque abbia opinioni dissenzienti rispetto a quelle preferite dal potere pubblico, ha il diritto di vivere e lavorare secondo le proprie convinzioni.

Così simili le storie della famiglia O’Connor, pizzaioli dell’Indiana o di Elane Photography del New Mexico. Si tratta di titolari di attività commerciali che sono andati incontro ad anni di processi e ad un pesantissimo stigma sociale (Memories Pizza degli O’Connor, assurta alle cronache nazionali, dovette poi chiudere, dopo campagne d’odio sui social e dal vivo), per poi sostanzialmente trovare riconoscimento nella Corte Suprema di aver posto in essere condotta per nulla discriminatorie, bensì espressive del semplice disaccordo “di persone ragionevoli in buona fede con convinzioni decenti e onorevoli”, per usare le espressioni del Supremo Consesso statunitense. 

È ancora sub iudice la delicatissima controversia che coinvolge la Catholic Charities adoption agency di Philadelphia, accusata di discriminazione per la scelta – di nuovo, basata non sull’odio, ma sulla convinzione antropologica che il superiore interesse del bambino sia avere un papà e una mamma – di non affidare in adozione bambini a coppie omosessuali.

Nella sentenza Obergefwll v. Hodges, ove è stato riconosciuto il matrimonio omosessuale, la Corte Suprema ha però affermato che la convinzione che maschio e femmina siano creati l’uno per l’altra è “decente e ragionevole” e continua a essere fatta propria da persone ragionevoli e sincere, in tutto il mondo. E va dunque rispettata.

Lo Stato, quindi, non può opporsi a queste idee, per di più rendendo legge tale opposizione, pena la compressione dei diritti di libertà di persone, destinate sempre più ad essere stigmatizzate o sminuite (sentenza Obergefwll v. Hodges). Inoltre, deve precisamente definire quali comportamenti siano discriminatori, escludendovi quanto sia espressione di legittimo dissenso.

È presente tale consapevolezza nel legislatore italiano? E nei fautori del ddl Zan? E negli entusiasti sostenitori? 

Davvero è necessario, per tutelare le persone di orientamento omosessuale, portarsi in casa una tale estensione dell’area del penalmente rilevante e tutte le problematiche che ne conseguono, con pericoli così significativi per il pluralismo e la libertà di opinione?

  • Il presente intervento rappresenta una sintesi dell’intervento di FRANCESCO CAVALLO in A. MANTOVANO, a cura di, Omofobi per legge?, Siena, 2020
  • Caso realmente accaduto a Baronelle Sturzman di Washington. Il caso è rimbalzato già due volte dai tribunali federali, che hanno condannato la sig.ra Baronelle, e la Corte Suprema, che ha ribadito invece la differenza di cui stiamo trattando e dunque la legittimità del comportamento della imputata.

A cura dei Giuristi Cattolici unione di Reggio Emilia

Cassazione penale, sez. V, sentenza 21/02/2007, n. 25138

La libertà di manifestazione del (proprio) pensiero garantito dall’art. 21 Cost. come dall’art. 10 della Convenzione EDU, include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee o critiche su temi d”interesse pubblico, dunque soprattutto sui modi d’esercizio del potere qualunque esso sia, senza ingerenza da parte delle autorità pubbliche.

La natura di diritto individuale di libertà ne consente, in campo penale, l’evocazione per il tramite dell’art. 51 c.p., e non v’è dubbio che esso costituisca diritto fondamentale in quanto presupposto fondante la democrazia e condizione dell’esercizio di altre libertà.

Né l’art. 21 Cost., analogamente all’art. 10 Cedu, protegge unicamente le idee favorevoli o inoffensive o indifferenti – nei confronti delle quali non si porrebbe invero alcuna esigenza di tutela -, essendo al contrario principalmente rivolto a garantire la libertà proprio delle opinioni che “urtano, scuotono o inquietano” (secondo la formula usata dalla Corte EDU).

Qualunque proposizione valutativa, rappresentando un giudizio di valore, comporta d’altro canto l’esistenza di postulati o proposizioni indimostrabili (“non misurabili” quali, per stare alla materia, la giustizia o l’ingiustizia, la correttezza o la scorrettezza, l’utilità sociale o la disutilità delle scelte operate) dei quali non può predicarsi un controllo se non nei limiti della continenza espositiva e cioè della adeguatezza – funzionalità allo scopo dialettico perseguito. Continenza mai posta in discussione per l’articolo in esame.

La libertà del dissenso, implicita nella libertà di critica, non poteva essere quindi negata nel caso in esame – relativo alla valutazione di vicende giudiziarie d’innegabile effetto politico e scaturito da una riflessione pubblica e politica (nel senso alto) innestata dalla stessa persona offesa – solamente a causa dell’esistenza di preconcetti o pregiudizi che pure trasparivano dal tessuto coli cui l’opinione – anch’essa politica e all’evidenza di parte avversa rispetto alle compagini politiche e sociali che avevano invece plaudito all’operato dei magistrati di Milano – era manifestata o dalla rozzezza o “erroneità” dell’opinione stessa, e dei suoi postulati.