Il problema del rapporto tra Chiesa e Stato può sembrare risolvibile in teoria, ma rimane eternamente aperto nella vita pratica.
In teoria si può considerare definitiva l’affermazione di Cristo: “Date a Cesare ciò che è di Cesare, a Dio quel che è di Dio”; nella realtà essa ci definisce solo il punto di partenza, cioè la separazione tra Chiesa e Stato, ma non ci dice nulla del punto di arrivo, cioè sul comportamento pratico per realizzate tale principio. Essa infatti è un principio religioso, cioè valido per ogni tempo, mentre il campo politico è quello in cui i singoli tempi mettono in pratica concretamente la loro cultura per realizzare i loro fini.
Se ripensiamo un attimo alla storia, vediamo che la causa di tale problema è data dal fatto che i due elementi antagonisti non riconoscono nessuna realtà terrena al di sopra di sé: la Chiesa religiosamente si appella a Dio, lo Stato a principi e valori che la sua stessa cultura ha creato, ma ha definito ugualmente, in modo laicamente religioso, certi e inviolabili.
Oggi sembra tornare di attualità un elemento fortemente dibattuto negli anni caldi della Questione Romana: allora da parte cattolica chi si opponeva al principio cavourriano di “libera Chiesa in libero Stato” accusava di doppiezza i liberali, affermando che essi in realtà sostenevano il principio: “libera Chiesa in Stato sovrano”. Oggi infatti, a causa del coronavirus, lo Stato precipitosamente si è ritenuto in diritto di legiferare anche nell’ambito della vita della Chiesa. Con ciò ritorna evidente da un lato la difficoltà della separazione, in pratica, tra i due poteri, dall’altro l’importanza ed il significato dei Concordati, che in epoca moderna sono visti come il mezzo migliore per realizzare la pace religiosa. D’altra parte, se si studia la legislazione di questi ultimi decenni, si può rilevare come essa conceda ai rappresentati dello Stato – ad esempio ad un semplice Sindaco – poteri tali da determinare se non una vera persecuzione religiosa, almeno un’ingerenza ostile e abusiva nella vita dei credenti.
Nella situazione attuale la Chiesa ha seguito con piena collaborazione le delibere statali, tanto da far sorgere in alcuni l’impressione di una subordinazione troppo supina, e quindi colpevole, all’improvvisa ingerenza dello Stato. Conviene allora fare alcune precisazioni, sperando che servano a passare dalle difficoltà attuali ad una ricomposizione a livelli più evoluti del problema dei rapporti tra Chiesa e Stato,
In primo luogo, vista la facilità con cui la situazione concreta può spingere uno dei due elementi a prevaricare sull’altro, è importante che cattolici e laici recuperino la coscienza di cosa vuol dire separazione tra Chiesa e Stato, che si ribadisca la necessità che la Chiesa sia sentita come struttura autonoma e sovrana e quindi che si ripensi ai concordati non come una soluzione di comodo o una concessione dello Stato alla Chiesa, ma come uno strumento che, regolando elementi molto delicati, va rispettato con scrupolo da entrambe le parti.
In secondo luogo bisogna considerare che il riconoscimento dell’autonomia della Chiesa rispetto allo Stato non si radica, anche in un pensiero laico, solo sul diritto fondamentale di tutti gli uomini alla libertà religiosa. Soprattutto se consideriamo la società italiana, vediamo facilmente che il rapporto della comunità civile con la realtà cattolica trae la sua ragione anche dal dovere dello Stato di realizzare il bene comune. Non si tratta solo di un fatto culturale (senza il cattolicesimo non comprenderemmo né Dante né Michelangelo), né del fatto che senza il volontariato cattolico il nostro debole Stato andrebbe in crisi: per tanti secoli principi e sensibilità religiosa hanno alimentato la vita e il sentire degli uomini, che il cattolicesimo è diventato parte e radice del nostro essere, tagliando la quale l’uomo rimarrebbe nudo. Esso rimane dunque – per così dire – come il linguaggio spirituale che cementa gli uomini in una comunità e in una civiltà e che permette allo Stato di dialogare e di realizzarsi come comunità di cittadini.
La produzione normativa volta a contrastare il coronavirus si è caratterizzata per un largo utilizzo, da parte del Governo, del Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri (DPCM), fonte secondaria, regolamentare, di tipica natura amministrativa.
In altre parole, il Governo ha dato applicazione alla legge con strumenti di diritto amministrativo, nell’esercizio di un potere discrezionale. Il potere discrezionale, quello ordinariamente utilizzato dalle pubbliche amministrazioni di tutti i tipi, dal Comune che rilascia una licenza commerciale, alla Regione che concede un finanziamento, alla Prefettura che emette un porto d’armi, deve non solo perseguire gli scopi fissati dalla legge, ma soprattutto attenersi, nelle modalità con cui li realizza, a determinati canoni.
Quali sono questi canoni? L’Amministrazione deve essere anzitutto strettamente rispettosa dei confini dati dalla legge, specie se una legge limitativa di diritti costituzionali; poi deve adottare misure razionali, proporzionate, efficaci, efficienti, adeguate agli obiettivi proposti, rispettose anche degli altri interessi secondari coinvolti, in particolare dei privati.
I DPCM di gestione dell’emergenza hanno rispettato tali canoni? La questione può aprire profili interessanti; qui per forza di cose solo abbozzati, anche in ragione dell’evoluzione continua delle circostanze.
DPCM o DL?
La prima riflessione riguarda proprio l’utilizzo dello strumento del DPCM. Il Governo ha inteso regolamentare l’emergenza con questo strumento agile, ma la Costituzione stessa, in casi come questi, impone la “riserva di legge assoluta”: può essere solo una legge primaria (legge ordinaria, decreto-legge, decreto legislativo) a porre limiti a libertà costituzionali.
Il Governo ha pensato quindi di emettere decreti-legge, che autorizzassero l’emissione di DPCM. L’effetto è stato un po’ straniante: il Governo, nell’esercizio di un potere legislativo, coi D.L. 6/2020 e 19/2020, indicava al Governo, quale organo esecutivo, quali provvedimenti amministrativi adottare.
Il problema sta nel fatto che, se c’è una “riserva di legge assoluta”, i provvedimenti attuativi (i DPCM, per capirci) possono essere solo strettamente esecutivi di quella legge e mai allargarne i confini.
I vari DPCM si sono mantenuti nei confini?
Il D.L. 19/2020, all’art. 3 comma 2, ha espressamente dichiarato la validità dei DPCM precedenti (8-9-11 e 22 marzo), quasi come per assorbirli: evidentemente lo stesso Governo ha ritenuto di non essere stato sempre nei confini, tanto da necessitare questa specie di “sanatoria”.
Ma il tema può essere analizzato anche su di un altro piano: perché scegliere di limitare le libertà con continui DPCM e non direttamente con decreti-legge, che la Costituzione prevede appunto per i casi straordinari di “necessità e urgenza”?
Se è vero che sempre di atti del Governo si tratta, gli strumenti sono molto diversi.
Il decreto-legge chiede il coinvolgimento dell’intero Governo, che lo adotta, nonché la emissione, come forma di controllo, del Presidente della Repubblica; e il necessario passaggio parlamentare della conversione in legge entro 60 giorni, a pena di nullità.
Il DPCM è invece espressione di un organo monocratico, il solo Presidente del Consiglio.
Davvero la necessità e l’urgenza non consentivano, o le limitazioni a libertà costituzionali non meritavano, di affrontare il problema con forme più collegiali?
Tra l’altro, per inciso, il D.L. è uno strumento pensato per affrontare l’urgenza, con prescrizioni immediate; in tal modo lo si è ridotto ad una sorta di “autorizzazione” a emettere futuri DPCM, paradossalmente ritardandone l’effetto.
Proporzionalità
Un secondo profilo interessante, potrebbe riguardare poi le prescrizioni concrete dei DPCM. Già abbiamo detto che, se poste al di fuori dei confini dei limiti stabiliti dai D.L., esse si potrebbero configurare come illegittime. Vorremmo però addentrarci oltre: rispetto agli stessi obiettivi posti dai decreti-legge, si tratta di prescrizioni razionali, proporzionali, adeguate?
Il principio di proporzionalità è uno dei principi fondamentali del diritto amministrativo e viene tradotto in due valutazioni: se l’atto è idoneo a ragionevolmente far conseguire il risultato e se è quello strettamente necessario a farlo, ossia se è il mezzo più mite disponibile, tra tutti quelli individuati come idonei.
Qualche esempio: non è proporzionato escludere una ditta da una gara se nella domanda non ha indicato informazioni secondarie, che possono essere acquisite in un secondo momento1; oppure estendere eccessivamente un vincolo paesaggistico a tutela di un bene culturale, tale da coinvolgere indirettamente altri beni siti a notevole distanza e per nulla incidenti sul bene culturale stesso2; o ancora annullare un provvedimento favorevole a un privato, a distanza di tempo, adducendo una irregolarità forse anche esistente allora, ma non più significativa nell’oggi3; e così via.
Al tempo stesso, la proporzionalità impone che lo strumento possa ragionevolmente far conseguire lo scopo: un atto inefficace, inefficiente non è neppure proporzionato.
Insomma: l’azione amministrativa deve essere razionale, non blanda né sovraccarica. Puntuale nell’individuare i suoi obiettivi – che sempre traggono origine dalla legge -, precisa nell’approntare i mezzi, adeguata nel rapporto tra i primi e i secondi.
Quale scopo?
Scorrendo le varie prescrizioni dei DPCM, ma anche i provvedimenti degli Enti locali, viene da chiedersi se essi effettivamente abbiano sempre rispettato tale canone.
Certo non sempre sono state chiare le stesse finalità di legge, sospese tra il contenimento del contagio, il contrasto al contagio, il tracciamento degli infetti4 ed evitare il collasso del Servizio Sanitario Nazionale (finalità tutte enunciate, per legge o per televisione, ma non esattamente coincidenti, a ben vedere). A fronte di tali obiettivi, il principio di proporzionalità degli atti esecutivi sempre è stato rispettato?
Scorrendo le varie prescrizioni, sia dei DPCM sia degli Enti locali a cui è stato conferito eguale potere, abbiamo appreso di limitazioni all’attività fisica tout court, di imposizioni del numero di accessi ai supermercati per famiglia, addirittura con obbligo di individuazione di un unico familiare legittimato, di limitazioni agli esercizi commerciali più restrittive di quelle imposte ad altro livello, fino alla espressa dichiarazione che determinati divieti non riguardassero per nulla il rischio di contagio, ma servissero unicamente a “dare l’idea ai cittadini di un regime duro”.
Pare abbastanza evidente la sussistenza di problemi di proporzionalità, di adeguatezza nella scelta dello strumento meno invasivo; che forse talvolta hanno sconfinato nello “sviamento di potere”, ossia nell’utilizzo di un potere per finalità diverse da quelle per cui è stato attribuito.
È facile ravvisare come tali ambiguità abbiano portato a stress pure l’ulteriore esercizio del potere amministrativo in sede di sanzione della trasgressione. Le forze di Pubblica Sicurezza si sono trovate ad applicare norme che intendevano molto più di quello che dicevano, con esiti talvolta paradossali.
Al tempo stesso, sull’altro versante della proporzionalità che è l’adeguatezza, troviamo nei DPCM molto spesso l’utilizzo della “raccomandazione”. Non si prescrive, ma si raccomanda, a volte anche “fortemente”: agli anziani e immunodepressi di non uscire (DPCM 4/3/20 art. 2), ai febbricitanti di stare in casa (DPCM 8/03/20, art. 1), agli imprenditori di concedere le ferie, di fare smart-working e di sanificare i locali (DPCM 11/03/20 art. 1), e così via. Un provvedimento amministrativo può essere utilizzato in funzione, per così dire, di moral suasion? E quale efficacia produce rispetto a chi non osserva la raccomandazione? È sindacabile in sede giurisdizionale, ossia può essere annullato da un Tribunale? E quale responsabilità determina, in capo all’Autorità che lo emette?
La riapertura
Le considerazioni esposte non mirano a mettere in discussione la gestione dell’urgenza e l’efficacia delle concrete decisioni assunte (siamo tutti convinti che a un lockdown si dovesse comunque pervenire, specie alla luce dei dati sanitari già di tre mesi fa); piuttosto hanno mira al futuro, alle fasi di riapertura nelle quali le scelte saranno, anche nel merito, meno “vincolate”, e dovranno tenere conto della variegata complessità dell’intero territorio italiano, così come della diversa diffusione del virus nelle varie zone e Regioni.
In tale contesto, un utilizzo eccessivamente disinvolto degli strumenti della discrezionalità amministrativa deve essere assolutamente evitato, per non cagionare storture anche gravi, nel rapporto tra “autorità” e “libertà”, tra governanti e cittadini, che caratterizza, nella sua essenza, il diritto amministrativo.
4 Forse non tutti ricordano che originariamente il D.L. 6/2020 prevedeva all’art. 1 la possibilità di emettere i provvedimenti limitativi principalmente “nelle aree nelle quali vi sia almeno un contagiato per cui non si conosce la fonte di trasmissione o comunque non riconducibile ad aree già interessate dal contagio”, facendo quasi intendere che il problema principale fosse il tracciamento degli infetti
Dopo una ubriacatura iniziale in cui molti riscoprivano la bellezza del tempo che rallenta scorrendo piacevolmente tra le mura domestiche, con l’andare del tempo all’allarme derivato dalla epidemia e dal modo con cui sono stati riversate tonnellate di dati spaventosi si è sommata la fatica della quarantena. Da due mesi la popolazione è esposta a stress continuo; se vi si aggiunge la forte paura per il degrado delle condizioni economiche fino al timore della perdita del lavoro si comprende meglio il perché dei drammatici dati emersi da uno studio commissionato dall’Ordine degli Psicologi all’istituto Piepoli.
L’impatto emotivo della emergenza su una persona dipende dalle caratteristiche e dalle esperienze di quella persona oltre che dalle sue circostanze sociali ed economiche.
Non ci sono dati desunti da esperienze simili che permettano di trarre esaurienti conclusioni. Tuttavia da tragedie sociali in qualche modo ravvicinabili come il crollo delle torri, precedenti epidemie più locali, terremoti o tsunami si è visto che una quota di popolazione trae spunto dalla tragedie per correggersi, migliorare proprie debolezze, divenire più responsabili, in parole divenire più resilienti. Per qualcuno probabilmente anche questa epidemia sarà una occasione per crescere, per diventare più calmi e sicuri, più ispirati. Ma costoro con probabilità saranno i meno. I più ne trarranno seri danni, fisici psichici relazionali e spirituali. Insomma l’epidemia non colpisce solo, si fa per dire, col virus; i suoi correlati rischiano di fare peggiorare la qualità della vita di milioni di persone. Lo strumento stesso usato per proteggersi dal contagio ha con sé conseguenze molto serie. I danni che può provocare la quarantena sono di tale ampiezza che è difficile citarli tutti in un breve unico articolo. Sono danni già attuali ma che si possono spandere avanti negli anni. Una ricerca sociologica non ha la stessa attendibilità di una indagine scientifica tuttavia l’istituto Piepoli rileva un livello di sofferenza mai prima così elevato. Il 42% dichiara di soffrire di ansia/stress, il 24% ha disturbi del sonno, il 22% si sente più irritabile, il 18% ha l’umore depresso, il 13% dichiara di essere immerso in conflitti relazionali. Certo, sono problemi che potevano pre-esistere; infatti è solo, solo?!, il 31% degli italiani che dichiara un netto peggioramento delle condizioni psicologiche. Le cause principali che fanno soffrire si suddividono. Il 51% si sente afflitto dalle condizioni/restrizioni della pandemia, il 58% sta male per le prospettive, il futuro angoscia.
Ora è evidente che bisogna farsi carico sia della tutela dal contagio sia dello stato psichico della popolazione altrimenti avremo individui spossati, famiglie sfasciate, comunità affannate. In particolare le persone più vulnerabili sono più esposte, gli anziani, i malati mentali, i disabili, i bambini: le persone più indifese. Le persone che hanno più bisogno della linfa vitale delle relazioni umane per non essere travolte dalla paura e dalle angosce. C’è bisogno di trovare forme di ascolto, vicinanza, sostegno inedite sia per forma ma anche per dimensione perché le ferite sono tante e non possono essere rimosse e recluse.
Per una di quelle coincidenze che capitano nella vita e nella storia, con gli amici ci siamo ritrovati, alla vigilia del 25 Aprile, a parlare di diritti conquistati a caro prezzo, di libertà di parola, di culto e di riunione, di pensiero e di espressione ed anche del diritto ad avere un giusto processo. Sono emersi ricordi di quando, per motivi di salute pubblica, vennero aboliti gli avvocati ed i processi e di come per decreti vennero tolte le minime libertà, sino a considerare oggi l’ipotesi, per quanto almeno suggeriscono talune affermazioni di importanti personaggi, di una sorta di reintroduzione di passaporti interni, come al tempo degli Stati preunitari. Per una serie di ragioni il 14.2. ero a Bergamo ed il 20.2 a Milano. Poi, la sera del 22.2 mi ha telefonato un caro amico, medico a Codogno, per dirmi che avevano trovato in un paziente qualcosa che non conoscevano e, se era il virus cinese, di starmene in casa il più possibile. Da allora per me e la mia famiglia è iniziata una sorta di quarantena volontaria, che non mi è pesata. Mi sembrava una normale condotta. Ma questa condotta, collettiva, regolata per decreti seriali, per quanto estesa e per come applicata in concreto, ha qualcosa a che vedere con quei diritti – tutti – non solo quello alla salute che dovrebbero esserci garantiti dalla Costituzione ? oppure il diritto alla salute pubblica, per ignoranza dei dati reali del contagio o per impreparazione ad affrontare una malattia così insidiosa, è un vettore per una limitazione eccessiva di tali diritti ? ed in forza di quale potere costituzionalmente conferito ? Si tratta di quesiti per niente teorici od oziosi la cui risposta fa la differenza tra accettare di essere sudditi od essere cittadini, titolari di diritti veri. Ai miei Colleghi l’arduo compito di svolgere questi temi, concreti, che ci riguardano.
Sul sito ugcre.it sono disponibili approfondimenti che motivi si spazio non possono essere integralmente riportati.
Nel primo libro dei Re (19, 5), si racconta che Elia, inoltratosi nel deserto una giornata di cammino, andò a ripararsi sotto un ginepro e, desideroso di morire, disse: “Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri”.
Il deserto lo abbiamo visto tutti (rigorosamente dalle finestre delle nostre case) durante le scorse settimane nella nostra città; l’attuale legislatore certamente non è migliore dei suoi padri (ma non tanto da meritarsi la pena capitale… per carità cristiana!), però il ginepraio di norme cresciuto in questi mesi durante l’emergenza epidemiologica da COVID-19 proprio non pare offrire alcuna protezione (ne cives ad arma ruant).
Per dare un’idea di massima di questa concerie, di seguito si rimette un lungo, incompleto e noioso elenco dei principali provvedimenti normativi, che si limita a quelli provenienti dalle Autorità nazionali… ed infatti, a questi si devono aggiungere ordinanze, decreti e grida comunali e regionali: insomma, qualcosa in più dei dieci comandamenti, che da duemila anni reggono la Chiesa.
Partiamo dalla Delibera del Consiglio dei Ministri del 31.01.2020 (sì, la data è corretta!), con cui è stato dichiarato lo «stato di emergenza in conseguenza del rischio sanitario connesso all’insorgenza di patologie derivanti da agenti virali trasmissibili» e poi attendiamo ventitré giorni per il d.l. n. 6 recanti «Misure urgenti [a quella data per forza!, n.d.a.] in materia di contenimento e gestione dell’emergenza epidemiologica da COVID-19» ed il d.p.c.m. di pari data con le relative disposizioni attuative, a cui fanno seguito ulteriori tre d.p.c.m. con “ulteriori disposizioni attuative” rispettivamente del 25.02.2020, del 01.03.2020 e del 04.03.2020; il 05.03.2020, a tempo di record, il d.l. n. 6/2020 è convertito, con modifiche, nella l. n. 13/2020.
Nel frattempo è emanato il d.l. 02.03.2020 n. 9 in materia di sostegno per famiglie, lavoratori e imprese, ed a stretto giro la Delibera del Consiglio dei Ministri del 05.03.2020 ed un nuovo d.p.c.m. dell’8.03.2020 (quello che include Reggio Emilia nella c.d. “zona rossa”). Lo stesso giorno, è emanato il d.l. n. 11 (in materia di svolgimento dell’attività giudiziaria) e seguono a ruota il d.p.c.m. 09.03.2020, che estende le previsioni del d.p.c.m. 08.03.2020 all’intero territorio nazionale, il d.l. n. 14/2020 dello stesso giorno (potenziamento del S.S.N.) ed un ulteriore d.p.c.m. in data 11.03.2020, che sospende le attività commerciali. In data 17.03.2020 vede la luce il famoso decreto “Cura Italia” (d.l. n. 18/20, che sarà convertito in l. 24.04.2020 n. 27), il quale potenzia il S.S.N. e provvede circa il sostegno per famiglie, lavoratori e imprese; mentre l’escalation delle chiusure raggiunge l’apice con il d.p.c.m. 22.03.2020, in base al quale viene disposta la sospensione di tutte le attività produttive, industriali e commerciali (salvo rare eccezioni), e con l’altro famoso d.l. c.d. “Italia zona rossa” (n. 19 del 25.03.2020), che consente l’adozione di limitazioni assai stringenti anche allo spostamento delle persone; a questi fanno seguito il d.p.c.m. 01.04.2020 e successivamente il d.p.c.m. 10.04.2020, recanti le disposizioni attuative.
La cavalcata dei decreti continua con due d.l. dell’8.04.2020: il n. 22, in materia di scuola, ed il n. 23 (c.d. “decreto liquidità”), con l’ultimo, in ordine di tempo, d.p.c.m. di attuazione del d.l. n. 6/2020 in data 26.04.2020 ed infine con il d.l. 30.04.2020 n. 28, in materia di giustizia.
A ciò vanno aggiunti circa duecento tra decreti, ordinanze, protocolli, direttive, provvedimenti e note di ministeri, dipartimenti e commissari straordinari, senza contare, come detto in apertura, la normativa locale né le “domande e risposte” (FAQ), le quali ultime non sono fonti normative: «quelle gride, ripubblicate e rinforzate di governo in governo, non servivano ad altro che ad attestare ampollosamente l’impotenza de’ loro autori; o, se producevan qualche effetto immediato, era principalmente d’aggiunger molte vessazioni a quelle che i pacifici e i deboli già soffrivano da’ perturbatori, e d’accrescer le violenze e l’astuzia di questi».
Molti cattolici si stanno chiedendo oggi se il divieto di celebrare Messe, funerali, di fare processioni o Via crucis sia stato e sia legittimo e costituzionalmente corretto.
L’art 7 della Costituzione repubblicana afferma:
Lo stato e la chiesa sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani
I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi.
Le modificazioni dei Patti, accettate dalle due parti, non richiedono procedimento di revisione costituzionale.
Durante la segregazione per il Covid 19 lo Stato è entrato nelle Chiese, ha vietato le celebrazioni religiose ed addirittura i funerali.
Davvero poteva farlo? O la chiesa poteva opporsi in nome della stessa Costituzione (art. 7 e 19) e addirittura riaprire una questione che i Patti lateranensi avevano risolta?
Ma quanti italiani (e ci permettiamo di dire anche quanti parlamentari o uomini di governo) sanno che cosa sono Patti Lateranensi?
Proviamo a riassumere.
I patti lateranensi conclusi fra il Regno di Italia e la Chiesa cattolica l’11 febbraio 1929 (giorno in cui la Chiesa festeggia la Madonna di Lourdes) posero fine alla “questione romana” esistente fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica che durava dal 1870.
Sono costituiti da tre convenzioni internazionali: il trattato, la Convenzione finanziaria ed il Concordato.
Mentre il Trattato fu un accordo storico politico che pose fine alla questione romana e fece nascere lo Stato Vaticano; la convenzione finanziaria definiva le somme che lo stato italiano doveva versare alla Chiesa per essersi appropriato dei territori e dei beni di proprietà della Chiesa che facevano parte dello Stato pontificio; il Concordato è un atto giuridico, un accordo fra lo Stato italiano e la chiesa che regolamenta i rapporti giuridici relativi a persone che sono contemporaneamente cittadini dello stato italiano e fedeli della Chiesa cattolica.
A questi Patti fecero riferimento i padri della Costituzione all’art 7, chiarendo bene che unilateralmente lo Stato non può modificarli.
Nel 1984 infatti si apportarono alcune modifiche al Concordato, in via consensuale, con gli accordi di revisione di Villa Madama.
Il concordato del 1929, con le modifiche del 1984 è quindi assolutamente in pieno vigore e lo Stato Italiano non può modificarlo unilateralmente
Per esser chiari quindi:
il Concordato ha lo scopo di disciplinare la vita della Chiesa cattolica che è in Italia, cioè della Chiesa italiana, con una finalità diversa, rispetto al Trattato, anche se ovviamente ci sono dei collegamenti di carattere giuridico e soprattutto di carattere ideale. Per cui una eliminazione del Concordato avrebbe conseguenze su tutti i Patti Lateranensi.
Senza pretese esaustive ci piace ricordare che nel concordato è assicurata alla chiesa (art. 1) il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della giurisdizione in materia ecclesiastica; è garantita (art. 2) piena libertà di comunicazione tra Santa Sede, Vescovi, clero e mondo cattolico “senza alcuna ingerenza del Governo italiano”, nonché piena libertà, senza alcun onere fiscale, di pubblicare ed affiggere all’interno e alle porte esterne degli edifici di culto od uffici ecclesiastici istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli; gli edifici aperti al culto sono esentati da requisizioni ed occupazioni, e la forza pubblica (tranne che nei casi di urgente necessità) ha divieto di entrare in edifici aperti al culto senza averne dato avviso all’autorità ecclesiastica (art. 9); alla scuola privata confessionale è riconosciuta la garanzia dell’esame di Stato (art. 35). Fu proprio il concordato che riconobbe effetti civili al matrimonio canonico e delle cause di nullità ecclesiastiche facendo quindi cessare l’obbligo sino allora vigente della doppia celebrazione civile e religiosa (art. 34); estensione dell’ora di religione cattolica (introdotta dal Ministro Gentile nelle elementari) a tutte le scuole di ogni ordine e grado (art. 36). Solo per citarne alcune.
Nel 1984 consensualmente vennero concordate alcune modifiche rese necessarie dal mutare dei tempi e dal concilio Vaticano II, ma, come scrisse il prof. Giuseppe Dalla Torre che fece parte della delegazione per la modifica “non mi pare che ci siano al momento esigenze di modifiche o di aggiornamenti. Semmai si potrebbe osservare che talora nella prassi, soprattutto giurisprudenziale, non sempre la lettera delle sue disposizioni appare pienamente osservata, come invece dovuto per solenni impegni assunti dallo Stato in sede internazionale” (11/02/2013 – ancora on line)
. L’accordo consta di quattordici articoli, i quali intendono affermare e tutelare:
Art 1: L’indipendenza e la sovranità dei due ordinamenti, Stato e Chiesa in linea con il dettato costituzionale (Art. 7 della Costituzione).
Art 2: Le garanzie in ordine alla missione salvifica, educativa e evangelica della Chiesa cattolica.
Art 3: Le garanzie in merito alla libera organizzazione ecclesiastica in Italia.
Art 4: Immunità e privilegi per figure ecclesiastiche.
Art 5: Gli edifici di culto che non possono essere requisiti, occupati, espropriati, demoliti o violati da forza pubblica se non per casi di “urgente necessità”.
Art 6: Le festività religiose.
Art 7: Le nuove discipline degli enti ecclesiastici.
Art 8: Gli effetti civili del vincolo matrimoniale celebrato in forma canonica.
Art 9: L’istituzione di scuole e la parificazione delle stesse alle scuole pubbliche.
Art 10: La parificazione delle qualifiche e dei diplomi ottenuti nelle scuole ecclesiastiche.
Art 11: L’assistenza spirituale.
Art 12: Il patrimonio artistico e religioso.
Art 13: La volontà in merito al valore giuridico del nuovo Accordo.
Art 14: In caso di difficoltà interpretative o applicative, vi si impone ai due contraenti di risolvere in maniera amichevole tali divergenze, per il tramite di un’apposita commissione paritetica.
Purtroppo i recenti episodi vissuti dalla Chiesa in Italia fanno dubitare e molto della volontà dello Stato Italiano di mantenere fermi gli accordi liberamente sottoscritti nel 1929 e concordemente modificati nel 1984. Questi dubbi su una prassi statale poco scrupolosa nel rispetto del concordato sono confermati dagli avvenimenti attuali. È comprensibile che la cultura anticlericale sia avversa al concordato ed è naturale che chi non ne conosce la storia, e quindi non sa a quante difficoltà e contrasti abbia posto fine, non percepisca la sua importanza; esso però è lo strumento per la realizzazione della libertà religiosa e della pace sociale all’interno della società moderna, libertà e pace così gravemente calpestate oggi da tante parti. La difesa del concordato è dunque un dovere anche per la Chiesa ed una necessità per tutti, con una cultura molto attenta alle tante insidie che la cultura multireligiosa del futuro può contenere in sé.
L’Unione Locale di Reggio Emilia si associa alle preghiere ed al cordoglio per la scomparsa di S. A. Em.ma Fra’ Giacomo Dalla Torre Del Tempio di Sanguinetto.